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Prima erano i mortai dell’Isis, oggi sono le bombe turche. Kobane, la città simbolo della resistenza curda, torna sotto assedio e questa volta il nemico arriva dal confine nord: una linea orograficamente inesistente ma tracciata con un muro di cemento armato che corre per 760 chilometri e separa il Kurdistan siriano dal territorio di Ankara.
Sono passati cinque anni da quel 26 gennaio 2015 in cui combattenti delle Unità di protezione del popolo curdo ( Ypg) - sostenuti dalla coalizione militare internazionale a guida Usa - hanno liberato Kobane e oggi in città è tornata la guerra.
«Nessuno lì se lo aspettava, tutti speravano che quella di Erdogan fosse l’ennesima dichiarazione a uso interno ma che non sarebbe arrivato davvero a tanto, soprattutto dopo il patto sottoscritto in agosto tra curdi e americani», spiega Tommaso Baldo, storico italiano e membro della delegazione di “Docenti senza frontiere” e della Fondazione Museo storico del Trentino che nel 2018 sono stati in visita a Kobane. Invece, Erdogan ha dato avvio all’operazione militare “Peace spring”, “Fonte di pace”, con il placet degli Stati Uniti in ritirata dall’area. Ufficialmente, l’obiettivo è «prevenire la creazione di un corridoio del terrore attraverso la frontiera meridionale della Turchia e stabilizzare l’area rispetto alla presenza terroristica». Nei fatti, la missione è «allargare l’influenza turca in Medioriente ed eliminare la minoranza curda, considerata composta da gruppi terroristici». Baldo ricorda una città ricostruita dopo l’orrore degli scontri, in cui le cose stavano lentamente tornando alla normalità. «Kobane stava lentamente ricominciando a vivere, in cui si girava per le strade senza paura», una normalità fatta di scuole, ospedali, asili e orfanotrofi, come ' L'arcobaleno di Alan' finanziato dalla Provincia autonoma di Trento.
L’obiettivo di Erdogan, tuttavia, non è solo militare ma anche simbolico. «Nella mossa della Turchia esiste anche una componente di vendetta», spiega Baldo. «Il regime di Erdogan è il prodotto di un mix di nazionalismo e islamismo. La minoranza curda ha sempre rivendicato le sue differenze etnico- culturali, a partire dalla lingua: il turco è del ceppo ugro finnico, il curdo indoeuropeo», non solo, i curdi si sono sempre ferocemente contrapposti al sogno del sultanato musulmano di Erdogan: «I curdi in Turchia, infatti, hanno sempre afferito all’area progressista, in opposizione alla fratellanza musulmana» . In questi anni di pace in città, Kobane è diventata esempio di autogoverno: «Il fine non è stato quello di conquistare l'indipendenza e fondare uno stato curdo ma piuttosto creare una democrazia partecipata in grado di garantire la convivenza tra curdi, arabi, assiri, turkmeni, armeni e le molte altre minoranze vivono fianco a fianco da millenni evitando le pulizie etniche ed i massacri che stanno insanguinando il resto della Siria», spiega Baldo.
Il sistema è quello delle comuni, assemblee di quartiere o di villaggio alla quale partecipano dei comitati, che si occupano di tutti i diversi aspetti della vita collettiva. Alla base c’è la comune, un’assemblea composta da 30 fino a 400 famiglie, in cui il gruppo di coordinamento e i portavoce sono organizzati col metodo della doppia carica: «Sempre un uomo e una donna, si parla di co- sindaci o i co- presidenti dei cantoni». Il cantone di Kobane è abitato da circa 350 mila persone: «I cantoni hanno i loro comitati formati dai delegati delle comuni. Insomma, lo scopo è far partecipare più persone possibili al controllo e alla gestione della cosa pubblica. Ovviamente l'impegno nelle comuni e nei comitati è svolto a titolo gratuito».
Tra mille difficoltà, l’obiettivo di questa struttura di democrazia diretta è quello di garantire a tutti un minimo di sostentamento, servizi pubblici di base gratuiti, «e il diritto di parola nelle assemblee popolari».
La cosa forse più sorprendente, tuttavia, riguarda la difesa della città che ha vissuto gli ultimi anni nel bel mezzo di una tra le più sanguinose guerre civili. «Dentro Kobane non c’è alcun dispiegamento di forze e le milizie non possono entrare in città». Tra i curdi è molto forte il culto dei martiri e dei caduti di guerra, ma non delle armi e della divisa. «Le armi non vengono mai ostentate, nemmeno nei posti di blocco e la città è presidiata da gruppi di autodifesa civile, membri dei consigli di quartiere autogestiti, che presidiano il territorio. Quando sono entrato a Koba- ne, l’ultima notte di ramadan e quindi in un momento di possibile tensione, sono stato accolto da cinque signori con il grembiule insieme al Kalashnikov».
Cosa succederà, ora, di quest’esperienza di comunità e di questa normalità costata così cara a un popolo che ha pagato il prezzo più alto nella lotta contro il Califfato dell’Isis, è difficile dirlo. «L’unica cosa certa è che ciò che avviene nel silenzio dell’Europa e della Nato è una vergogna per l’umanità», spiega Baldo, il quale è però convinto di una cosa: «Ci saranno centinaia di migliaia di profughi in condizioni disperate e una catastrofe umanitaria». Impossibile dire quanto durerà la campagna di Erdogan, l’unica certezza è che «la guerriglia curda continuerà a combattere, senza mai arrendersi, come ha sempre fatto».