La polizia è piombata nel suo appartamento di prima mattina e lo ha arrestato come conferma la figlia Mehrave Khandan in un post su Istagram. Reza Khandan, marito dell’avvocata e attivista dei diritti umani Nasrin Sotoudeh, è ora nelle mani del regime iraniano che ha dato seguito a una sentenza del 2017 in cui era stato condannato a sei anni di prigione, cinque per “raduno e collusione contro la sicurezza dello Stato”, uno per “propaganda contro la repubblica islamica”. Alla sbarra con Khandan l’insegnante di fisica e attivista Farhad Meysam che ha passato cinque anni dietro le sbarre in condizioni atroci, debilitato dalle torture e dai ripetuti scioperi della fame prima di venire scarcerato nel 2023 quasi in fin di vita.

L’esecuzione della sentenza di Khandan invece era stata rinviata da un tribunale di Teheran e si sperava che potesse venire archiviata. Le sue presunte attività eversive riguardano l’impegno in prima linea di Khandan per i diritti delle donne, le critiche alla polizia morale incaricata di sorvegliare i comportamenti e l’abbigliamento delle iraniane e la lotta per la liberazione della moglie condannata a 33 anni e mezzo di carcere e 148 frustate per “incitamento alla corruzione e alla prostituzione” e “atti peccaminosi” per essersi mostrata in pubblico senza il velo, attualmente è in libertà condizionata per motivi sanitari.

Mohammad Moghimi, legale di Reza Khandan ha impiegato parole durissime, definendo «illegale» la detenzione del suo cliente: “Lo accusano per delitti di opinione, perché ha criticato il governo iraniano e per l’attivismo a favore della moglie. Tuttavia, è fondamentale sottolineare che Khandan non ha commesso alcun crimine. Le sue azioni – criticare il governo, sensibilizzare sull'imprigionamento di sua moglie e opporsi alle leggi sull'hijab obbligatorio – sono tutte espressioni fondamentali della libertà di parola e dei diritti dei cittadini. Come suo avvocato in questo caso, credo fermamente che queste azioni non dovrebbero essere criminalizzate. Il governo iraniano deve rilasciarlo immediatamente. Il suo arresto è una chiara violazione dei suoi diritti fondamentali e le accuse contro di lui sono ingiuste”. 

L’avvocata Nasrin Sotoudeh è diventata il simbolo della rivolta pacifica contro il regime dispotico degli ayatollah; le accuse che le rivolgono sono paradossali perché riguardano il suo lavoro di difensore delle donne che si rifiutano di portare l’hijab. Quando questa mattina le forze di sicurezza iraniane hanno arrestato il marito lei era in casa, ma non le è stato permesso di seguirlo al commissariato. 

L’arresto di Khandan coincide beffardamente con l’entrata in vigore della nuova legge che inasprisce le sanzioni per le donne che per la strada o sui social si mostrano senza velo o che lo indossano in modo non conforme, comportamenti assimilati alla “nudità“ e all’ ”indecenza”. Composta da 74 articoli, la legge intitolata "hijab e castità" prevede multe che possono arrivare, in caso di recidiva, fino a venti mesi di stipendio medio. Le multe devono essere pagate entro dieci giorni, pena il divieto di lasciare il Paese e la privazione di alcuni servizi pubblici, compreso il rilascio della patente di guida.

Ma il testo molto controverso prevede anche divieti di viaggio, pesanti pene detentive, fustigazione e addirittura la pena di morte per “corruzione in terra” nei confronti del le donne che organizzano “propaganda politica” contro la legislazione. L'articolo 37 della legge afferma che "la promozione o la diffusione di nudità, oscenità, esposizione o abbigliamento improprio" in collaborazione con enti stranieri, compresi i media e le organizzazioni della società civile è passibile con l’arresto fino a dieci anni di reclusione e con una multa di 12mila dollari americani, una cifra enorme per la classe media iraniana.

La legge estende i poteri dei servizi di intelligence e di sicurezza, tra cui la polizia, il Ministero dell'Intelligence, l'Organizzazione di intelligence del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica e i Basij (milizie volontarie) incaricate queste ultime di controllare sul territorio il rispetto della norma. Prevede inoltre la totale impunità per i membri di autoproclamate milizie che adempiono al loro “dovere religioso” di imporre l'uso obbligatorio del velo (articolo 59) anche se commettpono atti di violenza.

Chiunque tenti di impedire arresti, molestie e attacchi violenti contro donne e ragazze che violano l'obbligo del velo può essere incarcerato o multato (articolo 60). Insomma guerra totale ai diritti delle donne a poco più di due anni dalla morte di Mahsa Amini, la giovane curda uccisa dalla polizia morale all’origine del movimento di protesta “Donna, vita, libertà” brutralmente represso dal regime.