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«Non mi somiglia per niente!» aveva detto ai poliziotti che lo stavano arrestando.
Ma Nijeer Parks, un afroamericano di 30 anni residente nel New Jersey non sapeva che a “inchiodarlo” non erano stati gli agenti ma un... software di riconoscimento facciale. Una macchina, che lo aveva identificato con l’autore di almeno sette reati: lesioni aggravate, possesso illegale d’armi da fuoco, possesso di droga, falsificazione di documenti d’identità, abbandono della scena del crimine e resistenza all’arresto (avrebbe ferito uno sceriffo con la sua automobile mentre si dava alla fuga). Il problema è che Parks non aveva fatto nulla, era semplicemente la vittima di un terribile scambio di persona. E con i capi d’accusa che pendevano sulla sua testa avrebbe potuto scontare fino a 15 anni di reclusione in un penitenziario del New Jersey.
I fatti risalgono a febbraio di due anni fa quando Parks riceve una telefonata dalla nonna: voleva avvertire che due agenti lo avevano cercato nel suo appartamento e che avrebbe dovuto presentarsi il prima possibile nella stazione di polizia di Woodbridge: «Non avendo niente da nascondere sono andato immediatamente in commissariato per capire cosa volevano, ma pochi minuti dopo che sono entrato mi hanno detto di mettere le mani dietro la schiena e mi hanno ammanettato: ero in stato d’arresto», racconta l’uomo.
Come spiega la Cnn la “prova” regina della sua colpevolezza era la «forte somiglianza» tra Parks e la foto di un ricercato rinvenuta su una patente falsa.
A scovarlo la scansione di un software di riconoscimento facciale chiamato FACES ( Face Analysis Comparison Examination System) che pesca su una banca dati di oltre trentatré milioni di profili individuali. In dotazione alle forze dell’ordine dal 2001 ( la Florida fu il primo Stato ad adottarlo), nel corso degli anni ha conosciuto decine di upgrade e miglioramenti, tanto che per molti investigatori di polizia sarebbe quasi infallibile.
E quando ti affidi a una macchina la tua capacità di giudizio sfuma a poco a poco, obnubilando il buon senso e prevalgono l’inerzia e il pregiudizio. «Com’è possibile - racconta ancora Parks- che ci abbiano confusi? Il sospetto portava degli orecchini mentre io non ho nemmeno i buchi alle orecchie. E com’è possibile che non abbiano controllato il mio alibi?».
In effetti quando il ricercato aveva ferito il poliziotto per darsi alla macchia Parks si trovava a 50 chilometri di distanza in un ufficio della Western Union per spedire del denaro alla sua compagna. A testimoniarlo c’è la ricevuta della transazione e le immagini di videosorveglianza dell’ufficio. Niente da fare, le autorità non hanno voluto controllare convalidando l’arresto». Fortunatamente gli avvocati di Parks si sono mossi con rapidità ed efficacia, smontando il fragile castello accusatorio: dopo 15 giorni di detenzione è stato rimesso in libertà. Il vero ricercato invece non è mai stato identificato. «So che per molti bianchi noi neri siamo tutti uguali, non credevo che anche i computer potessero avere simili pregiudizi», ironizza la madre Patricia Parks.
Nonostante la tecnologia di riconoscimento facciale diventi sempre più accurata, le cronache giudiziarie sono piene di errori clamorosi, in particolare per le persone con la pelle scura, afroamericani e latinos. Un “bug” che pesa come un macigno sull’affidabilità di questo strumento e che sta spingendo i tribunali a utilizzare FACES soltanto per le indagini e non come prova di accusa. Peraltro il software è stato espressamente proibito dalle autorità di San Francisco, Boston, Portland e Oakland.