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Entro febbraio aprirà la casa famiglia protetta “Casa di Leda”. A breve i bambini ristretti con le loro mamme a Rebibbia potranno finalmente liberarsi delle sbarre. Bambini, dai zero ai tre anni, costretti a vivere in un ambiente poco edificante per la formazione della loro personalità. Un problema che riguarda attualmente 37 bambini. Quella di portare i figli in carcere è una possibilità prevista dalla legge 354 del 1975, per le madri di bambini da 0 a tre anni. Il senso è quello di evitare il distacco o, per lo meno, di ritardarlo. Ma gli effetti su chi trascorre i suoi primi anni di vita in cella sono devastanti e permanenti. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria aveva affrontato il problema dei bambini in carcere avviando a Milano la sperimentazione di un tipo di istituto a custodia attenuata per madri. Tale modello è stato realizzato in una sede esterna agli istituti penitenziari, dotata di sistemi di sicurezza non riconoscibili dai bambini.
Ad oggi il governo ancora non ha adeguatamente investito in tali strutture esterne al carcere e quindi decine di bambini sono costretti a vivere in carcere. L’altro problema è quello della scarsa applicazione della detenzione domiciliare. Nonostante la legge la contempli, non sempre il magistrato la concede. Uno dei motivi principali è la residenza inesistente oppure inadatta, e colpisce soprattutto le detenute straniere e rom. Proprio per ovviare a questo problema esiste una legge che contempla anche la realizzazione delle case famiglia protette. La prima a venire alla luce, grazie al finanziamento di 150 mila euro da parte della fondazione Poste insieme onlus, è la “Casa di Leda”, un edificio confiscato alla mafia nel quartiere romano dell’Eur, composto da otto stanze con un giardino intorno dove i bambini potranno giocare insieme alle mamme, colpevoli di reati di non particolare gravità.
«Della “Casa di Leda” abbiamo già le chiavi. Sono state già individuate le ospiti che andranno ad occuparla. Auspico l’apertura entro febbraio», dice all’Adnkronos Gioia Passarelli, presidente di “A Roma Insieme”, l’associazione che gestirà la struttura. A Rebibbia ci sono attualmente dieci mamme detenute: ogni sabato i volontari di “A Roma Insieme” vanno a prendere i loro bambini e li portano ad esplorare la normalità del mondo fuori. Le mamme nel frattempo hanno dei colloqui con gli psicologi di sostegno o si dedicano a qualche attività. «Dalla musica alla lettura, i nostri volontari cercano di stimolare queste donne in tutti i modi possibili», spiega sempre Passarelli.
«La casa famiglia protetta è una soluzione da privilegiare» anche secondo Lia Sacerdote, presidente di “Bambinisenzasbarre”, la onlus che, insieme al ministro della Giustizia Andrea Orlando e alla Garante dell’Infanzia Filomena Albano, ha sottoscritto a settembre scorso il rinnovo per altri due anni del protocollo d’intesa “Carta dei figli di genitori detenuti», avviato il 21 marzo 2014. «Si tratta di un documento unico in Europa – spiega Sacerdote – che dà molta forza alle associazioni, come la nostra, che si occupano di bambini in carcere. Stimola la ricerca di nuovi interventi per rafforzare il legame affettivo tra genitore- dete- nuto e figlio. Dà indubbiamente visibilità ai tanti minorenni che vivono la realtà carceraria tutelando i loro diritti». Parlando della legge 62, quella che prevede le case protette, sempre Sacerdote ricorda «che è nata con l’obiettivo di far uscire i bambini dal carcere; ha liberato lo Stato dall’onere economico per la gestione delle Case famiglie protette e ha delegato gli enti locali ad occuparsene». Quindi, secondo la presidente di “Bambinisenzasbarre”, non potrà esserci nessuna scusa sulle risorse. «Se gli enti locali – conclude Sacerdote -, come è successo, dichiarano di non avere soldi per realizzare ambienti idonei per la crescita dei più piccoli, è loro la responsabilità di lasciarli in carcere».
Esistono gli Istituti a Custodia Attenuata per detenute Madri ( Icam) - attualmente a Torino ' Lorusso e Cutugno', Milano ' San Vittore', Venezia ' Giudecca' e a Cagliari -, ma si trattano pur sempre di luoghi ristretti che fanno capo all’amministrazione penitenziaria. Per questo la via da privilegiare è la casa famiglia protetta. La “casa di Leda “, intitolata non a caso a Leda Colombini, figura di primissimo piano del Pci e, negli ultimi anni, strenuo difensore dei diritti delle mamme detenute, potrebbe essere la prima pietra che si posa per la costruzione di una valida alternativa all’ingiusta detenzione dei bambini. Proprio in questi giorni, su Il Dubbio, abbiamo raccontato la vicenda inquietante di una bambina di poco più di un anno che si trova ristretta assieme alla mamma rom in una cella del carcere sardo di Uta. Si è appena operata e necessita di cure che il carcere non potrà mai dare.