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Il tema degli errori giudiziari e la loro riduzione probabilmente esula dai confini della giurisdizione, perché tocca il concetto del garantismo e obbliga ad accostarsi alla giustizia secondo l’idea costituzionale della presunzione di non colpevolezza.
Un’idea garantista non è solo una cultura giudiziaria ma sociale: una società che accetta l’idea del garantismo è fondata sul concetto molto chiaro di Stato di diritto, una società che invece la mette in discussione si indirizza consapevolmente verso una strada opposta.
Hegel diceva che la giurisdizione non è tanto una funzione dello Stato ma una manifestazione dell’idea di società che abbiamo. Il concetto di garantismo in capo all’avvocatura si contrappone al cosiddetto populismo giudiziario. Si tratta di una concezione dalla quale siamo sicuramente distanti ma che come sappiamo è quasi dominante in questa fase storica.
Come avvocatura siamo l’ultima professione con profonde radici umanistiche. In quanto giuristi, dobbiamo distaccarci da un’idea esasperata di garantismo così da non sconfinare in quello che, con una connotazione negativa, definiamo innocentismo a tutti i costi. Il garantismo è un momento di equilibrio voluto dai nostri padri costituenti, che prevede il diritto ad una difesa secondo le regole e che non trova elementi di condanna giudiziaria se non con le sentenze, possibilmente passate in giudicato. Com’è noto, viviamo un momento storico complicato. In troppi casi la ricerca di consenso politico passa attraverso il ribaltamento dell’idea di presunzione di non colpevolezza. Il consenso politico si guadagna propagandando questo concetto di punizione a tutti i costi, che quindi poggia sulla concezione di uno Stato fondato su un’idea punitiva. Una prospettiva che è entrata anche nel linguaggio comune: fateci caso, non parla più di carcere ma solamente di “galera”.
Essere per lo Stato di diritto non produce popolarità. Noi avvocati abbiamo il vantaggio di potercene infischiare, anzi l’avvocatura si fonda su battaglie che spesso non portano consenso, come quelle per un’idea di pena come strumento rieducativo e sulla prescrizione come elemento di civiltà che non consegna il cittadino al processo per un tempo indeterminato. Sono tutte battaglie impopolari, ma l’avvocatura è l’unico soggetto in questo momento storico che può portarle avanti. Dobbiamo esserne consapevoli, e orgogliosi.
Ho parlato di avvocatura, ma evidentemente non si può fare giurisdizione senza coincidenza di opinioni tra avvocatura e magistratura. Ultimamente sono rimasto perplesso quando, trattando il tema dei consigli giudiziari, e cioè dell’ipotesi che gli avvocati partecipassero in quella sede alle valutazioni dei magistrati nei consigli, tutte le correnti dell’Anm si sono espresse in senso contrario. Nulla di male. Tuttavia una di esse ha motivato la sua contrarietà sostenendo che non sia accettabile che un soggetto estraneo alla giurisdizione, l’avvocatura, partecipi alla valutazione dei magistrati. Evidentemente la magistratura non ha ancora maturato su questo una concezione equilibrata di giurisdizione e, probabilmente, una parte ritiene la giurisdizione un campo di competenza proprio, dove l’avvocato è un ospite mai indispensabile. Si continua a ragionare su un’idea di magistratura indipendente, mentre bisognerebbe pensare con molta lucidità a un’idea di giurisdizione indipendente: il cittadino ha diritto a un giudice e a un avvocato non condizionabili. Mettere in discussione il valore di uno dei due soggetti vuol dire mettere in crisi lo stesso ruolo della magistratura. Non è un caso se gli avvocati sono sempre stati i primi difensori dell’autonomia dei magistrati in tutto il mondo, come è avvenuto per esempio di recente in Polonia.
In sintesi, l’obiettivo deve essere una cultura comune del dubbio, il dubbio come valore imprescindibile nella giurisdizione e nelle crescite sociali. La società e la cultura, dalla scienza alla filosofia, non sarebbe cresciuta se non ci fossero stati continuamente degli step fondati sul dubbio che il risultato raggiunto potesse non essere quello definitivo. Dubbio vuol dire dialettica, quindi vuol dire processo, confronto di idee che è il patrimonio dell’avvocatura e deve essere anche il patrimonio della magistratura, traslato alla società.
Una società che non discute più è una società fondata sull’assertività e la violenza del linguaggio: il pericolo che stiamo correndo è di trasmetterlo alle prossime generazioni. Argomenti come quelli affrontati in questo convegno trasmettono anche un messaggio culturale: la giurisdizione e il diritto come unico strumento di mediazione. Mettersi in discussione, lavorare insieme, magistrati e avvocati, per arrivare a un modello processuale dialettico, è una grande sfida non solo di cultura giuridica ma di cultura sociale. Noi avvocati ci siamo, molti magistrati sono con noi, oggi ci sono tra i relatori importanti esponenti della professione e dell’accademia. Per questo sono molto felice di ospitare questo evento, curato dal Cnf insieme alla Scuola Superiore dell’Avvocatura.