Il nuovo piano nazionale di interventi contro l’Hiv e l’aids, redatto dal ministero della Salute e inviato alla conferenza Stato- Regioni, si interessa anche dei detenuti. Un piano molto articolato che parte dalla constatazione del rischio del ' sommerso' e della necessità di riparlare della malattia e di come evitarla con comportamenti consapevoli. Attenzione soprattutto ai giovani e focus sui diritti sociali e lavorativi. Il capitolo 2.3 è interamente dedicato ai detenuti e alla stesura del testo ha partecipato la Società italiana di medicina penitenziaria ( Simpse). Si legge che le persone detenute transitate nel 2015 all’interno degli Istituti penitenziari italiani sono state 103.840. Sulla base di numerosi studi di prevalenza puntuale, si stima possano essere circa 5.000 le persone sieropositive per Hiv, di cui circa la metà non noti o non dichiaratisi tali ai servizi sanitari penitenziari. Per il Sistema sanitario nazionale, che dal 2008 ha in carico l’assistenza sanitaria alle persone detenute, il periodo della detenzione rappresenta un momento unico per avvicinare ai propri servizi un cluster di persone altrimenti difficilmente raggiungibili. Nel 2012 la conferenza Stato- Regioni ha approvato un documento di Indirizzo “Infezione da Hiv e detenzione” che indica gli interventi necessari alla gestione delle problematiche dell’infezione da Hiv nel contesto detentivo. Il punto critico evidenziato dal testo riguarda la mancata conoscenza dei dati riguardanti il numero reale dei detenuti sieropositivi. Non sono stati condotti in Italia studi relativi all’incidenza di nuove infezioni e non è quindi noto il tasso annuo di siero- conversione ad anti- Hiv in carcere, pur essendo stati riportati singoli casi di sieroconversione durante detenzioni ininterrotte. Ugualmente è noto che le pratiche “a rischio” per la trasmissione del virus Hiv quali rapporti sessuali non protetti, utilizzo di aghi usati e tatuaggi siano tuttora comuni all’interno delle prigioni. Per questo motivo, il nuovo Piano nazionale, spiega che «è necessario disporre di dati epidemiologici ufficiali e certi in base ai quali individuare le criticità sanitarie intramoenia e allocare gli opportuni interventi».
Sono cinque gli interventi pro- Creazione di un Osservatorio nazionale sulla salute in carcere, presso l’Istituto Superiore di Sanità, in grado di coordinare i già previsti “Osservatori regionali per la tutela della salute in carcere” fornendo dati epidemiologici accreditati e aggiornati sia a livello locale che nazionale; attivazione dei programmi di formazione specifici riguardanti tutto il personale sanitario e di polizia penitenziaria; proposta normativa che preveda la “presa in carico” del detenuto, con l’obbligo per i Servizi sanitari di offrire, reiteratamente nel tempo, un counselling adeguato e un accesso volontario e libero ai test di screening d’ingresso, il tutto reiterato nel tempo; promozione di programmi ad ampio raggio, ossia con il coinvolgimento di tutti gli attori, di educazione sanitaria della popolazione detenuta. Elaborazione e distribuzione di materiale specifico; promo- zione di programmi di prevenzione con preservativi e siringhe/ aghi sterili ( riduzione del danno). Tali sperimentazioni andranno congiuntamente autorizzate dai ministeri della Giustizia e della Salute. Il testo poi prosegue nel dare indicazioni su come assistere i detenuti che hanno l’Hiv. Viene promossa la garanzia della continuità terapeutica attraverso indicazioni a tutti gli Istituti attraverso le modalità normative ritenute idonee, mediante la consegna ai pazienti liberanti di una quantità di farmaco non inferiore ai sette giorni successivi e, in caso di trasferimento in altro istituto penitenziario, garantire il trasfeposti. rimento dei farmaci in uso del paziente all’Istituto che lo riceve. Il capitolo riguardante i detenuti conclude ordinando di favorire al massimo l’inserimento nel “continuum of care assistenziale” del paziente in via di liberazione.
L’aids è una vera e propria piaga all’interno degli istituti penitenziari. Essere sieropositivo in carcere è come vivere un incubo dentro un altro incubo: l’Hiv non è una patologia come un’altra, ma è oppressa dallo stigma sociale e dalla mediocrità delle informazioni; se si aggiunge il carcere, il risultato è spaventoso. Secondo dei vecchi dati, mai aggiornati, il 28% dei detenuti è positivo all’epatite C, il 7% all’epatite B, il 3,5% all’Hiv, il 20% ha una tubercolosi latente e il 4% è positivo alla sifilide. E se questi numeri sono già spaventosi, va aggiunta la scarsa consapevolezza: un terzo ignora di soffrire di una patologia, ritardando così l’assunzione di farmaci e rischiando di contribuire inconsapevolmente alla diffusione. Per coloro che vengono curati, sorgono altri problemi. Non di rado i detenuti cambiano carcere e questo, nella maggior parte dei casi, vuol dire cambiare terapia e di conseguenza la cura risulta inefficace. Ma accade anche che la terapia venga interrotta e ciò significa far aumentare la carica virale dell’Hiv. Il virus si riproduce velocemente e la non aderenza fa la differenza tra una patologia tenuta sotto controllo e una patologia che rischia di diventare incontrollabile. Rimane comunque il dato oggettivo che l’assistenza infettivologica in molte realtà penitenziarie è ancora fornita in maniera occasionale e spesso solo su richiesta di visita specialistica da parte delle Unità Operative di assistenza penitenziaria. Le richieste di visita presso i centri ospedalieri, invece che in carcere, sono ancora troppo elevate rispetto a insufficienti risorse di personale per le traduzioni; questo determina di fatto una discontinuità nel percorso assistenziale di cura e trattamento.
Poi c’è mancanza di prevenzione. In Spagna ad esempio, quando si entra in carcere, i detenuti ricevono un kit con prodotti per l’igiene, siringhe, preservativi, detergenti e altro di cui puoi avere bisogno. Il nuovo piano nazionale per combattere questa piaga che coinvolge anche i penitenziari va nella direzione giusta.