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Signor presidente, circa tre anni fa, il I 3 gennaio 1898, indirizzai al Suo predecessore Félix Faure una Lettera di cui egli non tenne sventuratamente conto per la sua buona reputazione. Ora che egli dorme il sonno eterno, la sua memoria rimane oscurata dalla mostruosa iniquità che io gli denunciavo, e della quale si è reso complice, usando tutto il potere che gli derivava dalla sua alta magistratura per coprire i colpevoli.
Ed eccoLa ad occupare il suo posto, ecco che l’abominevole affaire, dopo avere macchiato tutti i governi complici o vili che si sono succeduti, si conclude sbrigativamente in un supremo diniego di giustizia, in un’amnistia che le Camere hanno appena votato con il coltello alla gola, e che porterà nella storia il nome di amnistia sciagurata. Il Suo governo precipita nell’errore insieme ai governi che l’hanno preceduto, assumendosi la più pesante delle responsabilità. Una pagina della sua vita sta per essere macchiata, la sua magistratura rischia di uniformarsi a quella precedente, a sua volta insozzata da una macchia indelebile.
Mi permetta perciò, signor presidente, di esprimerle tutta la mia angoscia. Visto che la mia prima Lettera è stata una delle cause di questa amnistia, all’indomani della sua approvazione concluderò con questa nuova Lettera. Quanto meno non mi si potrà rimproverare d’essere un chiacchierone. Il 18 luglio 1898 partivo per l’Inghilterra e sono tornato soltanto il 5 giugno 1899: in quegli undici mesi ho taciuto. Ho di nuovo parlato nel settembre 1899, dopo il processo di Rennes. Poi sono ripiombato nel più completo silenzio, che ho spezzato una solta volta nel maggio scorso, per protestare davanti al Senato contro l’amnistia. Sono più di diciotto mesi che aspetto giustizia, fissata ogni tre mesi e regolarmente rinviata alla sessione successiva. Ho trovato tutto ciò tragico e comico. Oggi, al posto della giustizia, arriva quest’amnistia scellerata e oltraggiosa. Penso pertanto che il buon cittadino che sono stato, il silenzio che ho rispettato per non essere causa d’imbarazzo né di disordini, la grande pazienza che ho mostrato nel contare su una giustizia così lenta mi diano oggi il diritto e il dovere di parlare.
Lo ripeto, devo concludere la mia opera. Una prima fase dell’affaire Dreyfus, che chiamerò il crimine assoluto, termina in questo momento. Prima di rientrare nuovamente nel silenzio, è necessario che spieghi il punto a cui siamo giunti, qual è stata la nostra opera e qual è la nostra certezza per domani.
Non ho bisogno di risalire alle prime infamie dell’affaire, mi è sufficiente ritrarlo all’indomani della raccapricciante sentenza di Rennes, quella provocazione insolente ed iniqua che ha fatto fremere il mondo intero. È qui, signor presidente, che comincia la colpa del suo governo e conseguentemente la sua.
Sono certo che un giorno ciò che è accaduto a Rennes verrà raccontato documenti alla mano: alludo al modo in cui il Suo governo si è lasciato ingannare e ha creduto quindi di doverci tradire. I ministri erano convinti dell’assoluzione di Dreyfus. Come avrebbero potuto dubitarne quando la Corte di Cassazione credeva di avere imbrigliato il Consiglio di Guerra nei termini di una sentenza così netta, in cui l’innocenza s’imponeva anche senza dibattimento? Come potevano minimamente preoccuparsi, quando i loro subordinati, intermediari, testimoni, attori perfino nel dramma, promettevano loro la maggioranza se non l’unanimità? E sorridevano dei nostri timori, lasciavano tranquillamente il tribunale in preda alla collusione, alle false testimonianze, alle manovre flagranti di pressione e d’intimidazione; spingevano la loro cieca fiducia fino a compromettere Lei, signor presidente, omettendo di avvisarla, perché voglio credere che il minimo dubbio Le avrebbe impedito di prendere, nel suo discorso di Rambouillet, l’impegno di inchinarsi di fronte alla sentenza, quale essa fosse. Governare significa forse non prevedere? Ecco un governo nominato per assicurare il buon funzionamento della giustizia e per vegliare sull’onesta esecuzione di una sentenza della Corte di Cassazione. Esso non ignora quale pericolo corra quella sentenza in mani fanatiche che ogni sorta di malvagità hanno reso poco scrupolose. E non fa niente, si compiace nel suo ottimismo, lascia che il crimine si compia alla luce del sole! Posso convenire che quei ministri volessero allora la giustizia: ma Le chiedo, che cosa avrebbero fatto qualora non l’avessero voluta?
Poi esplode la condanna, una mostruosità fino ad allora inaudita di un innocente condannato due volte. A Rennes, in seguito all’inchiesta della Corte cli Cassazione, l’innocenza era evidente, non poteva lasciare adito a dubbi di sorta. Invece arriva il fulmine e l’orrore passa sulla Francia e su tutti i popoli. Come reagirà il governo, tradito, ingannato, provocato, il cui incomprensibile abbandono è sfociato in un simile disastro?
Voglio ancora ammettere che il colpo che si è ripercosso così dolorosamente nell’animo di tutti i giusti abbia turbato anche i suoi ministri che avevano l’incarico di assicurare il trionfo del diritto. Ma cosa vorranno fare, quali saranno le loro decisioni all’indomani del crollo di tutte le loro certezze, una volta constatato che, lungi dall’essere stati artefici di verità e di giustizia, hanno causato con la loro inettitudine e la loro leggerezza uno sfacelo morale dal quale la Francia impiegherà molto tempo a riaversi? Ed è qui, signor presidente, che ha inizio l’errore del Suo governo e Suo personale, errore che ci ha separati da tutti voi, per una divergenza d’opinioni e di sentimenti che non ha mai cessato d’ingrandirsi.
Esitare per noi era impossibile, non c’era che un mezzo per liberare la Francia dal male che la divorava, se la si voleva guarire per ridarle realmente la pace: infatti non c’è pacificazione se non nella tranquillità della coscienza, né ci sarà salvezza per noi finché sentiremo in noi il veleno dell’ingiustizia commessa. Bisognava trovare il modo di convocare nuovamente e immediatamente la Corte di Cassazione; e non mi si dica che era impossibile, il governo disponeva degli elementi necessari, anche al di fuori dell’abuso di potere. Bisognava liquidare tutti i processi in corso, lasciare che la giustizia compisse il suo corso senza che un solo colpevole le potesse sfuggire. Bisognava ripulire l’ulcera a fondo, dare al nostro popolo un’alta lezione di verità e di giustizia, restituire alla Francia il suo primato morale dinanzi al mondo. Soltanto allora si sarebbe potuto dire che la Francia era guarita e pacificata.
È stato in quel momento che il suo governo ha preso l’altro partito, e cioè la risoluzione d’insabbiare una volta di più la verità, di sotterrarla, pensando che ciò fosse sufficiente perché non esistesse più. Nello sgomento in cui l’aveva gettato la seconda condanna dell’innocente, non ha saputo escogitare che il doppio provvedimento: prima la grazia dell’innocente e poi, per ottenere il silenzio, il bavaglio dell’amnistia. Le due misure sono collegate e si completano, sono la rabberciatura di un governo allo stremo che è venuto meno alla sua missione e che, per togliersi d’impaccio, non trova di meglio che rifugiarsi nella ragion di Stato. II Suo governo ha voluto coprirla, signor presidente, dal momento che aveva avuto il torto di lasciarla impegnare. Ha voluto salvarsi a sua volta, credendo forse di appigliarsi alla sola azione in grado di salvare la Repubblica minacciata.
Il grande errore è stato perciò commesso quel giorno, nel momento in cui si presentava l’ultima occasione per agire e restituire alla patria la sua dignità e la sua forza. So bene che in seguito, nel corso dei mesi che si sono succeduti, la salvezza è diventata sempre più difficile. Il governo sì è lasciato schiacciare in una situazione senza uscita e quando davanti alle Camere ha affermato che non avrebbe potuto più governare qualora gli avessero rifiutato l’amnistia aveva senza dubbio ragione. Ma non è stato il governo che, disarmando la giustizia quando essa era ancora possibile, ha reso necessaria l’amnistia? Scelto per salvare tutto, ha lasciato che tutto crollasse nella peggiore delle catastrofi. E quando è intervenuto per trovare l’estrema riparazione, non ha saputo immaginare di meglio che terminare come i governi Méline e Dupuy avevano cominciato: l’insabbiamento della verità e l’assassinio della giustizia.
Non è una vergogna della Francia che nessuno dei suoi uomini politici si sia sentito sufficientemente forte, intelligente e coraggioso per prendere in mano la situazione, per gridarle la verità e per essere da essa seguito? Per tre anni abbiamo visto gli uomini che si sono succeduti al potere prima vacillare e poi sprofondare nello stesso errore. E non parlo né di Méline, l’uomo nefasto che ha voluto il crimine, né di Dupuy, l’uomo ambiguo, asservito in partenza al partito dei più forti. Ma parlo di Brisson, che ha avuto il coraggio di chiedere la revisione; non è doloroso l’errore irrimediabile in cui è caduto permettendo l’arresto del colonnello Picquart all’indomani della scoperta del falso Henry? Parlo d i Waldeck– Rousseau, i cui coraggiosi discorsi contro la legge di incompetenza a procedere avevano avuto così nobigetazioni le risonanza in tutte le coscienze. Non è disastroso che si sia sentito in obbligo di legare il suo nome a questa amnistia che, con brutalità anche maggiore, dichiara incompetente la giustizia? Ci chiediamo se un nemico al governo non ci sarebbe stato più utile, visto che gli amici della verità e della giustizia, quando sono al potere, non sanno trovare altri mezzi per salvare se stessi e il Paese che quello di ricorrere a loro volta alla menzogna e all’iniquità.
Signor presidente, se la legge d’amnistia è stata votata dalle Camere con la morte nel cuore, è chiaro che lo scopo è di assicurare al Paese la salvezza. Nel vicolo cieco in cui si è cacciato, il suo governo ha dovuto scegliere il terreno della difesa repubblicana, di cui ha sentito la solidità. L’affaire Dreyfus ha per l’appunto indicato i pericoli che la Repubblica correva, a causa del doppio complotto del clericalismo e del militarismo che agivano in nome delle forze reazionarie del passato. E da quel momento il piano politico del governo è semplice: sbarazzarsi dell’affaire Dreyfus insabbiandolo, lasciar in tendere alla maggioranza che, se non obbedirà docilmente, non avrà le riforme promesse. Tutto ciò andrebbe bene se per salvare il Paese dal veleno clericale e militarista non lo si lasciasse immerso in un altro veleno, quello della menzogna e dell’iniquità in cui lo vediamo agonizzare da tre anni.
Senza dubbio l’affaire Dreyfus è un terreno politico detestabile. O quanto meno lo è diventato a causa dell’abbandono nel quale è stato lasciato il popolo, in mano ai peggiori banditi e nel putridume della stampa ignobile. E concedo ancora una volta che nell’ attuale momento l’azione sia difficile, se non impossibile. Ma nondimeno l’idea che si possa salvare un popolo dal male che lo consuma, decretando che quel male non esiste più, è una concezione miope. L’amnistia è fatta, i processi non si faranno più e non sarà più possibile perseguire i colpevoli: ma ciò non toglie che Dreyfus, innocente, sia stato condannato due volte, e che questa orrenda ingiustizia finché non sarà riparata continuerà a far delirare la Francia in preda a incubi orribili. Voi avete ben sotterrato la verità, ma essa cammina sotto terra e un giorno riaffiorerà ovunque, esplodendo in ve- vendicatrici. E la cosa peggiore è che voi contribuite alla demoralizzazione degli umili, oscurando in loro il sentimento dì giustizia. Dal momento che non ci sono puniti, non ci sono neppure colpevoli. Come vuole che gli umili sappiano se sono in preda alle menzogne corruttrici di cui sono stati alimentati? Occorrerebbe una lezione per il popolo, mentre al contrario gli ottenebrate la coscienza e finite per il pervertirla del tutto.
Il nodo è tutto qui: il governo afferma di tendere alla pacificazione con la legge d’amnistia, e noi al contrario sosteniamo che esso corre il rischio di preparare nuove catastrofi. Torno ancora una volta a ripetere che non c’è pace nell’ingiustizia. La politica vive alla giornata, crede all’eternità solo perché ha guadagnato sei mesi di silenzio. È possibile che il governo goda di un po’ di tregua, e ammetto perfino che la impiegherà utilmente. Ma la verità si risveglierà, griderà, scatenerà delle tempeste. Da dove verranno? Lo ignoro, ma verranno. E da quanta impotenza saranno colpiti gli uomini che non hanno voluto agire, con quale peso li schiaccerà questa amnistia scellerata in cui hanno gettato alla rinfusa persone oneste e delinquenti! Quando il Paese saprà, quando il Paese sollevatosi vorrà rendere giustizia, la sua collera non comincerà col cadere su coloro che non l’hanno illuminato quando potevano farlo? Il mio caro e grande amico Labori l’ha dello con la sua meravigliosa eloquenza: la legge d’amnistia è una legge dettata dalla debolezza e dalla impotenza. La viltà dei governi che si sono succeduti si è accumulata e questa legge nasce da tutti i cedimenti degli uomini che, messi di fronte a u n’ingiustizia insopportabile, non hanno avuto la forza di impedirla né di porvi rimedio. Di fronte alla necessità di dover colpire in alto, tutti si sono piegati e hanno indietreggiato. All’ultimo momento, dopo tanti crimini, non è né l’oblio né il perdono che ci viene porto, ma la paura, la debolezza, l’impotenza in cui si sono trovati i ministri a far semplicemente applicare le leggi esistenti. Dicono di volerci pacificare con concessioni reciproche: non è vero, la verità è che nessuno ha avuto il coraggio di usare la scure con la vecchia società corrotta, e per nascondere questa codardia parlano di clemenza, assolvendo Esterhazy il traditore, e Picquart, l’eroe al quale l’avvenire innalzerà monumenti. Questa è un’infamia che sarà sicuramente punita poiché non ferisce soltanto la coscienza ma corrompe la moralità nazionale.
È questa una buona educazione per una Repubblica? Quali lezioni donate alla nostra democrazia quando le insegnate che ci sono ore in cui la verità e la giustizia non esistono più se l’interesse dello Stato lo esige? È la ragion di Stato rimessa sul piedistallo da uomini liberi che l’hanno condannata nella Monarchia e nella Chiesa. Bisogna veramente che la politica sia una grande pervertitrice d’anime. E dire che molti dei nostri amici che fin dal primo giorno hanno validamente combattuto, aderendo alla legge d’amnistia come a una misura politica necessaria, oggi hanno ceduto al sofisma! Mi si spezza il cuore nel vedere l’onesto e coraggioso Rane prendere le difese di Picquart contro lo stesso Picquart, mostrandosi felice del fatto che l’amnistia, che gli impedirà di difendere il suo onore, lo salverà dall’odio certo di un Consiglio di Guerra. E Jaurès, il nobile e generoso Jaurès che si è prodigato così magnificamente, sacrificando il suo seggio di deputato in questi tempi di appetiti elettorali, anche lui accetta di vederci amnistiati, Picquart ed Esterhazy, Reinach e du Paty de Clam, me e il generale Mercier, tutti nello stesso sacco! La giustizia assoluta finisce dunque là dove comincia l’interesse di un partito? Ah, quale serenità essere un solitario, non appartenere a nessuna setta, dipendere soltanto dalla propria coscienza, e che agiatezza nel procedere dritti per il proprio cammino, non amare che la verità, e volerla perfino quando potrebbe scuotere la terra e far cadere il cielo!
Signor presidente, nei giorni della speranza dell’affaire Dreyfus, avevamo fatto un bel sogno. Non avevamo tra le mani un caso unico, un crimine nel quale erano coinvolte le forze più reazionarie che sono di ostacolo al libero progresso dell’umanità? Mai si era presentata un’esperienza più decisiva e mai sarebbe stata data al popolo una lezione più nobile. In pochi mesi avremmo illuminato la sua coscienza, avremmo fatto molto di più per istruirlo e maturarlo di quanto un secolo di lotte politiche non avesse fatto. Sarebbe bastato mostrargli l’operato di tutti i poteri deleteri, complici del più esecrabile dei crimini: l’annientamento di un innocente le cui inqualificabili torture strappavano all’umanità un grido di rivolta.
Confidando nella forza della verità attendevamo il trionfo. Sarebbe stata l’apoteosi della giustizia: il popolo cosciente che si levava in massa acclamando Dreyfus al suo rientro in Francia; il Paese che ritrovava la sua consapevolezza e innalzava un altare all’equità, celebrando la festa del diritto glorioso e sovrano riconquistato. E tutto sarebbe finito con un bacio universale, con i cittadini pacificati e uniti dalla comunione della solidarietà umana. Ahimè, signor presidente, sa bene ciò che è avvenuto: l’ambigua vittoria la confusione per ogni piccola parte di verità conquistata, l’idea della giustizia a lungo oscurata nella coscienza dello sventurato popolo. Sembra che la nostra idea di vittoria fosse troppo immediata e grossolana. La vita non contempla trionfi strepitosi che sollevino una nazione, che in un giorno la consacrino forte e potente. Simili evoluzioni non si realizzano in un istante ma soltanto nello sforzo e nel dolore. La lotta non finisce mai, ogni passo in avanti avviene al costo di una sofferenza e soltanto i figli potranno constatare i successi raggiunti dai padri. E se nel mio ardente amore per il popolo francese non mi consolerò mai di non aver potuto trarre per la sua educazione civica la nobile lezione che l’affaire Dreyfus comportava, sono altresì da molto tempo rassegnato nel vedere la verità penetrarlo lentamente, fino al giorno in cui sarà maturo per il suo destino di libertà e di fraternità.
Non abbiamo mai pensato ad altro che al popolo, ad un tratto l’affaire Dreyfus si è dilatato diventando un caso sociale e umano.
L’innocente che soffriva all’isola del Diavolo era soltanto l’accidente, tutto il popolo soffriva con lui sotto il peso schiacciante di potenze malefiche, nell’impudente disprezzo della verità e della giustizia.
Salvandolo, salvavamo tutti gli oppressi e gli umiliati. Ma soprattutto, ora che Dreyfus è libero e restituito all’amore dei suoi, chi sono i furfanti e gli imbecilli che ci accusano di voler riaprire l’affaire Dreyfus? Sono coloro che, nei loro loschi maneggi politici, hanno forzato il governo ad esigere l’amnistia continuando a corrompere il Paese con le menzogne. Che Dreyfus cerchi con tutti i mezzi legali di ottenere la revisione del giudizio di Rennes è certamente giusto, e noi il giorno in cui si presenterà l’occasione lo aiuteremo con tutte le nostre forze. Immagino che perfino la Corte di Cassazione sarà felice di avere l’ultima parola per l’onore della sua suprema magistratura. Si tratta solamente di questo, di una questione giudiziaria, nessuno di noi ha mai avuto la stupida idea di ravvivare quello che è stato l’affaire Dreyfus: e oggi l’unico desiderio auspicabile e possibile è quello di trarre da questo caso le conseguenze politiche e sociali, la messe di riforme di cui esso ha mostrato l’urgenza. Sarà la nostra difesa in risposta alle accuse abominevoli che ci vengono rivolte, e soprattutto sarà la nostra vittoria definitiva.
Signor presidente, un’espressione mi irrita ogni volta che la sento pronunciare, è il luogo comune secondo il quale l’affaire Dreyfus ha fatto tanto male alla Francia. L’ho sentita pronunciare e scrivere da tutti, miei amici la ripetono correntemente, e forse l’avrò usata io stesso questa espressione assolutamente falsa. E non mi riferisco all’ammirevole spettacolo che la Francia ha offerto al mondo, questa lotta gigantesca per una questione di giustizia, questo conflitto di tutte le forze attive in nome di un ideale. Così come non parlo dei risultati già ottenuti: gli uffici del Ministero della Guerra ripuliti, tutti gli attori equivoci del dramma spazzati via: poiché la giustizia, malgrado tutto, ha fatto un po’ del suo dovere. Ma il bene immenso che l’affaire Dreyfus ha fatto alla Francia non è, in realtà, l’essere stato l’accidente putrido, la piaga che appare in superficie e che rivela il marciume interiore? Bisogna ritornare all’epoca in cui il pericolo clericale faceva alzare le spalle, in cui era di moda prendere in giro Homais, volterriano ritardato e ridicolo. Le forze reazionarie avevano continuato a strisciare sotto il selciato della nostra grande Parigi inando la Repubblica, contando già d’impadronirsi della città e della Francia il giorno in cui le attuali istituzioni sarebbero crollate. Ed ecco che l’affaire Dreyfus smaschera tutto prima che l’insabbiamento sia pronto, ecco che i repubblicani finiscono per accorgersi che rischiano di vedersi confiscare la loro Repubblica se non vi riportano l’ordine. Tutto il movimento di difesa repubblicano è nato da lì, e se la Francia si salverà dal lungo complotto della reazione lo dovrà all’affaire Dreyfus.
Auspico che il governo porti a buon fine il dovere di difesa repubblicana che ha appena invocato per ottenere dalle Camere il voto sulla sua legge d’amnistia. E’ il solo mezzo di cui dispone per essere finalmente coraggioso ed efficace. Ma non rinneghi l’affaire Dreyfus, lo riconosca come il bene più grande che potesse capitare alla Francia, e dichiari con noi che senza l’affaire Dreyfus oggi la Francia sarebbe di sicuro nelle mani dei reazionari.
Quanto alla mia questione personale, signor presidente, io non recrimino. Sono quarant’anni che faccio il mio lavoro di scrittore, senza inquietarmi né delle condanne né delle assoluzioni pronunciate sui miei libri, lascio all’avvenire la cura di formulare il giudizio definitivo. Un processo restato a metà non può dunque turbarmi eccessivamente. È un affaire in più che la storia giudicherà. E se rimpiango la desiderabile esplosione di verità che un nuovo processo avrebbe potuto far scaturire, mi consolo pensando che la verità troverà ugualmente una via per affermarsi.
Eppure Le confesso che sarei stato molto curioso di sapere cosa una nuova giuria avrebbe pensato della mia prima condanna, emessa sotto la minaccia di generali armati della clava del terribile falso Henry. E questo non vuol dire affatto che io abbia una grande fiducia nella giuria, così facile da sviare e da terrorizzare in un processo puramente politico. Ciò nonostante, sarebbe stata una interessante lezione il dibattimento che si riapriva dopo che l’inchiesta della Corte di Cassazione aveva ottenuto la prova di tutte le accuse da me mosse. Se lo immagina? Un uomo condannato sulla base di un falso che ritorna davanti ai suoi giudici dopo che il falso è stato riconosciuto e confessato! Un uomo che aveva accusato altri in base a fatti di cui un’inchiesta della Corre Suprema ha ormai accertato l’assoluta verità! In quell’aula avrei vissuto delle ore gradevoli, perché un’assoluzione mi avrebbe fatto piacere; e, nel caso ci fosse stata un’altra condanna, la vile stupidità o la passione cieca hanno per me una bellezza particolare che mi ha sempre appassionato.
Ma devo essere chiaro, signor presidente. Le scrivo unicamente per mettere fine a tutta questa vicenda, ed è bene che io ripeta davanti a Lei le accuse che avevo esposto al presidente Félix Faure, per stabilire definitivamente che esse erano giuste, moderate, perfino carenti, e che la legge del suo governo ha amnistiato in me un innocente.
Ho accusato il tenente colonnello du Paty de Clam «di essere stato il diabolico artefice dell’errore giudiziario, voglio sperare inconsapevolmente, e di avere in seguito difeso la sua opera nefasta per tre anni attraverso le più assurde e colpevoli macchinazioni». Per chi abbia letto il rapporto del terribile capitano Cuignet, che al contrario si spinge fino all’accusa di falso, mi sembra un’espressione discreta e cortese, non è vero?
Ho accusato il generale Mercier «di essersi reso complice, quanto meno per debolezza di carattere, di una delle più grandi ingiustizie del secolo». Su questo punto faccio onorevole ammenda e ritiro la debolezza di carattere. Ma, se il generale Mercier non ha l’attenuante di una debole intelligenza, allora negli atti a lui ascritti che l’inchiesta della Corte di Cassazione ha appurato e che il Codice qualifica come criminali la sua responsabilità è totale.
Ho accusato il generale Billot «di avere le prove certe dell’innocenza di Dreyfus e di averle nascoste, di essersi reso colpevole del crimine di lesa umanità e di lesa giustizia a scopo politico e per salvare lo Stato Maggiore compromesso». Tutti i documenti ad oggi conosciuti provano che il generale Billot era per forza di cose al corrente delle manovre criminali dei suoi subordinati; inoltre aggiungo che dietro suo ordine il dossier segreto su mio padre è stato consegnato ad un giornale immondo.
Ho accusato i generali de Boisdeffre e Gonse «di essersi resi complici dello stesso crimine, l’uno senza dubbio per passione clericale, l’altro forse per quello spirito di corpo che fa degli uffici della Guerra l’arca santa inattaccabile». Il generale de Boisdeffre si è giudicato da sé all’indomani della scoperta del falso Henry, offrendo le sue dimissioni e uscendo dalla scena pubblica. Uscita tragica di un uomo che precipita nel nulla dopo essere stato elevato ai più alti gradi e alle più alte funzioni: quanto poi al generale Gonse, fa parte di coloro che l’amnistia salva dalle più pesanti e acclarate responsabilità.
Ho accusato il generale de Pellieux e il comandante Ravary «di aver condotto un’inchiesta scellerata, intendo dire un ‘ inchiesta mostruosamente parziale, di cui abbiamo, nel rapporto del secondo, un imperituro monumento di ingenua audacia». Che si rilegga l’inchiesta della Corte di Cassazione e si vedrà che la collusione è accertata e provata dai documenti e dalle testimonianze più schiaccianti. L’istruzione dell’affaire Esterhazy non fu che un’arrogante commedia giudiziaria.
Ho accusato i tre esperti calligrafi, Belhomme, Varinard e Couard, «di aver fatto dei rapporti falsi e fraudolenti, a meno che un esame medico non li dichiari affetti da una malattia della vista e della mente». Dichiaravo ciò di fronte alla straordinaria affermazione dei tre esperti, i quali asserivano che il borderea non era stato scritto da Esterhazy; errore che, a mio parere, un bambino di dieci anni non avrebbe commesso. Oggi sappiamo che lo stesso Esterhazy riconosce di aver compilato il bordereau. E il presidente Ballot Beaupré nel suo rapporto ha dichiarato solennemente che a suo parere, non c’era nessuna possibilità di dubbio.
Ho accusato gli uffici del Ministero della Guerra «di aver condotto una campagna stampa, in particolare su “L’Éclair” e “L’Echo d Paris”, una campagna sporca, per sviare l’opinione pubblica e coprire la loro colpa». Non insisto; penso che la prova stia in tutto ciò che è emerso in seguito e in quello che gli stessi colpevoli hanno dovuto confessare.
Infine, ho accusato il primo Consiglio di Guerra «di avere violato la legge, condannando un presunto colpevole sulla base di un documento rimasto segreto», e il secondo «di avere coperto questa illegalità, per ordine dell’autorità, commettendo a sua volta il crimine giuridico di assolvere coscientemente il vero colpevole». Per il primo Consiglio di Guerra, il fatto d’avere prodotto un documento segreto è stato nettamente stabilito dall’inchiesta della Corte di Cassazione, peraltro confermata anche al processo di Rennes. Per il secondo è sempre l’inchiesta ad aver provato la collusione e il continuo intervento del generale de Pellieux, nonché l’evidente pressione con cui è stata ottenuta l’assoluzione in ossequio al desiderio dei superiori.
Come vede, signor presidente, non c’è una delle mie accuse che le colpe e i crimini scoperti non abbiano confermato, e ripeto che queste accuse oggi appaiono assai tenui e modeste di fronte all’agghiacciante cumulo delle infamie commesse. Confesso che non avrei mai osato supporne una tale quantità. Allora, le chiedo, qual è il tribunale onesto, o semplicemente ragionevole, che si coprirebbe di vergogna condannandomi ancora, ora che la prova di tutte le mie accuse è così chiara ed evidente? E non sembra anche a Lei, che la legge del Suo governo che concede l’amnistia a me, innocente, insieme al branco di colpevoli che ho denunciato, sia veramente una legge scellerata?
È dunque finita, signor presidente, almeno per il momento, per questo primo periodo dell’affaire che l’amnistia ha chiuso forzatamente.
Come risarcimento ci promettono la giustizia della Storia. È un po’ come il paradiso cattolico, che serve a far pazientare le vittime miserabili strangolate dalla fame su questa terra. Soffrite, amici miei, mangiate il vostro pane secco, dormite per terra, intanto che i felici di questo mondo dormono tra le piume e si cibano di prelibatezze. Allo stesso modo, lasciate che gli scellerati occupino le posizioni più alte, mentre voi, i giusti, venite spinti nel fango. E aggiungono che, quando saremo tutti morti, ci erigeranno delle statue. Da parte mia, voglio, e perfino spero, che la rivincita della Storia sia più seria delle delizie del paradiso. Comunque sia, un po’ di giustizia su questa terra mi avrebbe fatto piacere.
Io non mi lamento del nostro destino perché sono convinto che siamo quasi in porto, come si suol dire. La menzogna non può durare all’infinito, mentre la verità, che è una sola, ha dalla sua parte l’eternità. Così, signor presidente, il suo governo dichiara che riporterà la pace con la legge d’amnistia, e noi dal canto nostro crediamo che prepari al contrario nuove catastrofi.
Un po’ di pazienza e si vedrà chi ha ragione. Secondo me, non smetterò di ripeterlo, l’affaire Dreyfus non può finire finché la Francia non saprà e non riparerà l’ingiustizia commessa. Ho detto che il quarto atto era stato era stato recitato a Rennes, e che per forza di cose ci sarebbe stato un quinto atto. Me ne resta nel cuore l’angoscia, ci si dimentica sempre che l’Imperatore tedesco ha la verità tra le mani e che può sbattercela in faccia a suo piacimento quando lo vorrà. Sarà un quinto atto agghiacciante, che io ho sempre temuto e di cui un governo francese non dovrebbe accettarne la spaventosa eventualità neppure per un istante.
Ci hanno promesso la Storia e anch’io rimando Lei al suo giudizio. Le riserverà una pagina dicendoci quello che Lei avrà fatto. Pensi a quel povero Félix Faure, a quel conciatore di pelli deificato così popolare al suo apparire, che aveva commosso perfino me con la sua bonomia democratica: per l’avvenire sarà soltanto l’uomo ingiusto e debole che ha permesso il martirio di un innocente. E veda se non le piacerebbe molto di più essere ricordato sul marmo come l’uomo della verità e della giustizia. Forse è ancora in tempo. Quanto a me, non sono che un poeta, un narratore solitario che scrive appartato la sua opera mettendoci tutto se stesso. Ritengo che un buon cittadino debba accontentarsi di offrire al suo Paese il lavoro che riesce ad assolvere nel modo meno maldestro; ed è per questo che mi chiuso nei miei libri. Ritorno dunque semplicemente ad essi, poiché la missione che mi ero assegnato è compiuta. Ho fatto la mia parte fino in fondo, quanto più onestamente mi è stato possibile, e rientro definitivamente nel silenzio.
Devo però aggiungere che le mie orecchie e i miei occhi rimarranno bene aperti. Sono un po’ come suor Anna, mi preoccupo giorno e notte di quel che si profila all’orizzonte, confesso perfino di nutrire la tenace speranza di poter vedere presto tanta verità e giustizia avanzare verso di noi dai campi lontani dove l’avvenire
Voglia gradire, signor presidente, l’assicurazione del mio profondo rispetto.