È morto Alì, il più grande pugile di tutti e tempi. Il mondo intero in questi giorni lo sta celebrando, con frasi bellissime e tanta ammirazione. «Era un genio, era un uomo buono». Gli intellettuali in prima linea. I grandi giornali.Non è vero: non era buono. Per usare una espressione che recentemente ha fatto fortuna nel dibattito politico italiano, Alì era un «Bastardo islamico», era un picchiatore selvaggio che infieriva su tutti e soprattutto sul suo paese. Era un nemico dell’America. E l’America lo trattò da nemico. Lo condannò a cinque anni di prigione, lo mandò in esilio, gli tolse il titolo mondiale dei massimi.Muhamnad Alì, lo sapete tutti, si chiamava Cassius Clay, e ripudiò il suo nome il 6 marzo del 1964, a 22 anni, un paio di settimane dopo aver spedito al tappeto Sonny Liston, un toro nero di dieci anni più grande, che sembrava invincibile, eterno. Decise di chiamarsi Muhamnad Alì e divenne un sostenitore di Malcolm X, rivoluzionario separatista afroamericano, che predicava la religione musulmana, non voleva l’integrazione e chiamava i neri alla lotta violenta. Alì quel giorno, sfoderando il suo ghigno - dolce, certo, ma ferocissimo - disse ai giornalisti: «Sono un guerriero della causa musulmana». Beh, pensate un po’ se oggi un campione sportivo dichiarasse qualcosa del genere, come lo tratterebbero i giornali e i capi della politica!Allora non fu molto diverso. Né lì in America né in Italia. Il ‘68 doveva ancora venire e anche il movimento pacifista americano era agli albori. Alì fu un precursore del movimento pacifista. Era un pacifista violento. I giornali non lo avevano per niente in simpatia. Non potevano ignoralo, certo, perché al mondo non era ancora apparso, né apparirà, un pugile bravo come lui. Combatteva senza mai alzare la guardia, si difendeva schivando, danzava con una grazia incredibile, era uno spettacolo vederlo sul ring, e poi, a un certo momento, vibrava un colpo micidiale e mandava giù l’avversario. Era rarissimo che Alì prendesse lui un colpo, nei primi anni della sua carriera, fin quando, a 25 anni appena, fu costretto a interromperla per via del suo rifiuto di andare a sparare ai vietcong.I giornali ne parlavano, ma continuavano a chiamarlo Cassius Clay. Un po’ perché il nome era più semplice - e più breve nei titoli - un po’ perché erano razzisti. Allora il razzismo contro i neri era davvero molto diffuso. Specie in America, naturalmente. Un po’ come è oggi il razzismo, qui da noi, contro gli immigrati. Era senso comune tra i bianchi e nell’establishment. Alì, che era un ragazzetto che veniva dal Kentucky, da Louisville, trasformò la sua incredibile abilità di boxer in strumento politico. E iniziò una battaglia furibonda, un corpo a corpo contro il razzismo.Parliamo dei primi anni ‘60, quando in Alabama un governatore democratico si rifiutava di far entrare nell’università gli studenti neri. E quando un giovane ufficiale dell’esercito degli Stati Uniti, che si chiamava Colin Powell (ed era destinato dopo qualche anno a diventare il capo delle forze armate) si sentì dire, entrando in un bar: «Non serviamo i negri, ragazzo. Se vuole può accomodarsi alla porta di servizio».E’ in quel clima lì che Alì si unisce a Malcolm X, capo della “Nazio Islamica”, e fonde boxe e politica. Non parte per il Vietnam, come sapete, spiegando che a lui «i vietcong non lo hanno mai chiamato nigger». E paga, paga cara questa sua impuntatura. Milioni e milioni di dollari al vento. E poi la condanna a 5 anni di prigione. E l’esilio. E il titolo perduto. E la più fantastica carriera che mai un pugile abbia avuto, bloccata a 25 anni, quando era ancora un ragazzino. Capite che vuol dire? Voi credete che c’è molta gente disposta a rischiare tutto - patrimonio, fama, successo, agiatezza - per un’idea pacifista?Così fece Alì, che tutti chiamavano Clay. E così costruì la sua fama, creando provocazioni, sfidando i bianchi, e sfidando l’America, perché l’America era guerra, era potere bianco, era conformismo, ipocrisia. Oggi lo commemorano, con tanta retorica, molti di quelli che lui odiava.Se la prendeva anche coi neri, spesso, se erano integrati. Li chiamava zio Tom. Si riferiva al personaggio del celebre romanzo della scrittrice antischiavista Harriet Stowe, il quale era un negro che amava il suo padrone, e si sottometteva. Alì ballava sul ring, sempre con le braccia basse, lungo i fianchi, e gridava all’avversario: «coraggio, zio Tom, vieni avanti! ». E quello allora avanzava e provava a colpirlo, ma Alì, con un balzo, non c’era più. Spuntava da un altro angolo del ring e di nuovo ringhiava e rideva: «Avanti, zio Tom, vieni... vieni qui che ti uccido».La Capanna dello zio Tom era un romanzo ambientato in Kentucky. Giusto nella terra di Alì. Cioè nello Stato dove nacquero le leggi del Jim Crow. Le conoscete queste leggi? Erano un pacchetto di norme che - dopo la liberazione degli schiavi e la fine della guerra civile - erano riuscite, in una grande svolta reazionaria, a ristabilire la discriminazione razziale, al Sud, e la sottomissione dei neri. Si chiamavano così per via di uno spettacolino, molto famoso, proprio a Louisville, dove un certo Jim Crow era il ridicolo personaggio, sgrammaticato e da tutti umiliato, che rappresentava la figura del nero-standard. Ne ha parlato anche Bob Dylan di quelle leggi, in una canzone molto nota del 1965, dedicata ad Emmet Till, un ragazzino di 14 anni ucciso a frustate e poi annegato dai razzisti, in Mississippi: «La giuria ha detto che sono innocenti/ che se ne posso andare/ Mentre il corpo di Emmett fluttua nella schiuma orrenda/ del Jim Crow, giù, giù fino al mare... ». A proposito di frustate, ne aveva prese tante anche Sonny Liston, il toro, e cioè il primo grande avversario di Clay - perché si chiamava ancora così - che lo affrontò nel ‘64 e lo rese grande. Clay vinse alla settima ripresa e fece impazzire le scommesse, perché tutti erano convinti che avrebbe vinto Liston.Ne aveva prese tante di frustate, Sonny, quando era un bambino e faceva il raccoglitore di cotone in Missouri. Lo pagavano qualche cents al giorno e se lavorava male il padrone lo frustava, perché si usava ancora così, perché lo schiavismo in alcuni stati del Sud è durato almeno fino agli anni sessanta, o forse anche settanta. Il razzismo se ne è infischiato di Roosevelt e di Kennedy.Quando gli hanno fatto l’autopsia, a Sonny, hanno trovato i segni, indelebili, sulla schiena. Alì disse delle parole di vera ammirazione verso Liston, quando Liston morì. Era così forte, Liston, che da ragazzetto faceva le rapine senza armi: a cazzotti. Lo presero subito e si fece tre anni di galera. Poi uscì e salì sul ring. Vinse tutti gli incontri. Capite che vuol dire tutti? Tutti. Finché non incontrò Clay, e allora perse. Poi lo incontrò di nuovo l’anno dopo, quando già si chiamava Alì, e finì al tappeto alla prima ripresa. Dicono che il pungo di Alì lo avesse appena sfiorato. E che lui si sia buttato giù per fare i soldi con le scommesse. Non credo che sia così. Alì era proprio forte, e quel pugno, che pure non era dinamite, prese Sonny alla tempia e lo tramortì.Poi li conoscete tutti i grandi incontri affrontati dopo l’interruzione di cinque anni. Nel ‘71, in appello, vinse il processo sull’obiezione di coscienza e potè tornare negli Stati Uniti e riprendersi la licenza da boxer. Non era più allenato, e neanche più giovanissimo. Ma era sempre lui, Alì. Tornò a combattere, subito: fu un errore. Sfidò Joe Frazier che si era preso il suo titolo quando lui era all’estero. Alì diceva che era l’usurpatoPerò fu sconfitto, per la prima volta nella sua vita, ai pounti, dopo 15 riprese da incubo. Si riprese il titolo tre anni dopo, nel ‘74, nella famosa battaglia di Kinshasa contro Foreman che aveva battuto Frazier ed era diventato luio campione dei pesi massimi. Fu grandioso quella volta, Alì. Nessuno scommetteva un dollaro sulla sua vittoria. Lui invece era certo. Foreman lo pestò. Alì tirò un solo pugno vero. Uno solo. Ma così forte che stese Foreman e vinse la partita.Quante frasi feroci, in quei giorni. Contro i bianchi, contro i neri traditori, contro l’America. E la gente, lì in Africa, che gridava impazzita per lui: « Alì, boma ye», cioè Alì, uccidilo. Durante tutto l’incontro gridava: «Uccidilo, uccidilo». E lui riprendeva il grido, gridava pure lui, appena Foreman gli lasciava qualche secondo di respiro: «boma ye, boma ye».Che ipocrisia i santini che scrivono ora i giornali. Era proprio un «bastardo islamico», altroché. Era un gigante del pugno e un gigante della politica, e della lotta dei neri, e dei diritti dei musulmani. Era un moderato, Alì? Ma non dite sciocchezze: era un radicale, era con Malcolm X e con le pantere nere, con Stokley Carmichel, con Huey Newton e con Bobby Seale. Non era del gruppo gandhiano di Luther King.L’orazione funebre la terrà Bill Clinton. E’ giusto così? Bill Clinton nel 1968 aveva 22 anni, stuidiava legge. Anche a lui arrivò la cartolina e doveva partire per il Vietnam. Una volta ha raccontato di avere passato la notte, insieme a un suo amico, che si chiamava Haller, per decidere che fare. Partire o disobbedire? Alla fine Haller decise di bruciare la cartolina e scappare in Canada. Clinton invece chiamò il suo amico William Fulbright, icona della politica americana, senatore dell’Arkansas e padre putativo, politicamente, di Bill. Chiese il suo aiuto. Fulbright riuscì a farlo riformare. Il giovane Haller visse un pessimo esilio. Per tre anni. Poi si suicidò. Clinton lo seppe mentre stava facendo campagna elettorale per George McGovern, sfidante di Nixon. Per un mese, per via del rimorso, dovette interrompere il suo impegno politico. Clinton ha sempre detto che Haller era un politico molto migliore di lui.E allora, è giusto che parli Clinton ai funerali di Alì?Si forse è giusto. Toni Morrison, che è una delle più importanti scrittrici afroamericane, qualche anno fa – durante il caso Lewinsky, quando Obama ancora non era all’orizzonte – scrisse che Clinton è stato il primo presidente nero degli Stati Uniti.Nero? Perché nero?Perché dice bugie - rispose la Morrison - suona la tromba, mangia gli hamburger con le patatine fritte e il ketchup, è appassionato, onesto e imbroglione. Come noi negri...