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Si pubblicano oggi le lettere che Dreyfus scrisse dal carcere, alcune subito dopo il suo arresto, quando ancora nessuno poteva lontanamente immaginare quali sviluppi avrebbe fatto registrare il caso, altre dopo la inaspettata condanna.
Ne emerge un essere umano serio, consapevole della propria innocenza, composto e psicologicamente molto forte. E tuttavia sempre pieno di speranza che le proprie ragioni sarebbero state prima o poi riconosciute. Speranza riposta invano se soltanto fondata sui giudici e sui militari.
La vera speranza andava riposta invece in alcune dimensioni irrinunciabili di ogni democrazia: la libera stampa, la libertà dell’intellettuale, la libertà del giudizio.
Non sarà mai abbastanza sottolineata l’importanza capitale che una stampa libera da influenze e condizionamenti è in grado di evidenziare allo scopo di salvaguardare l’assetto di una democrazia. Non sono tanto idealista da non ammettere che ogni giornale e ogni giornalista possano o perfino debbano avere una propria idea di politica e di società e che, attraverso questa idea, vedranno necessariamente il mondo e ne forniranno una interpretazione.
Il problema non è questo, posto che anche i giornalisti sono esseri umani pensanti, dotati di una precisa sensibilità, come tutti gli altri.
Il punto è che essi devono essere lasciati liberi di formarsi una loro idea sui fatti che cadono sotto la loro osservazione e di scriverne come ritengono, interessando quella parte di opinione pubblica che ritenga sensate le loro prospettive.
Questo fece l’Aurore di Parigi, dopo che Le Figaro si era attestato su più prudenti posizioni filogovernative e perciò antidreyfusarde.
Ed ebbe la piena libertà di farlo. Oggi, in Italia, dopo oltre un secolo dall’Affaire, la stampa gode della medesima libertà? Non sarei così sicuro nel dare una risposta affermativa.
Troppe volte accade che un ministro rimbrotti un giornalista, reo di aver pubblicato una informazione sgradita; che il potente di turno cerchi di emarginare una testata scomoda; che il Consiglio Superiore della Magistratura si metta a strillare sol perché si metta in dubbio, con adeguate motivazioni, la bontà di una qualche iniziativa di un pubblico ministero.
In tutti questi casi, non mi risulta che la libertà di stampa sia stata efficacemente difesa da alcun ente o da alcuna istituzione.
Semplicemente, si preferisce far finta di nulla, lasciando che le cose vadano come devono andare: ma chi ragiona in tal modo – un vero condensato di sciatteria del pensiero – non sa che gioca col fuoco.
Da un secondo punto di vista, fondamentale è la libertà dell’intellettuale, cioè di colui che sia capace di svolgere una funzione di severa critica del potere, di qualunque potere: economico, politico, finanziario, criminale, mafioso e antimafioso, giudiziario, editoriale, comunicativo ….
Qui, il ruolo è svolto da Zola, il quale sa bene di andare incontro allo spostamento mimetico – già segnalato – e che ne farà a sua volta un capro espiatorio. E tuttavia, egli va ugualmente avanti, perché ne va non solo del destino di Dreyfus e della Francia – come da lui più volte ricordato – ma perfino della sua propria identità. E se ne ebbe mali di ogni genere. Non solo fu condannato per diffamazione e dovette riparare a Londra; ma fu anche personalmente calunniato in quanto di origine italiana; e lo fu anche nella persona del padre, peraltro deceduto da tempo, in difesa della onorabilità del quale si impegnò a scrivere diversi articoli.
E resta il giallo della sua morte. Una morte strana e su cui mai fu dissipata una qualche incertezza, per avvelenamento di una stufa accanto alla quale si era assopito.
Ci sono oggi in Italia intellettuali come Zola?
Non ne conosco.
Latitano. E perciò non ci sono.
Occorre infine che sia garantita ai giudici la necessaria libertà di giudizio, esente da pressioni di ogni genere e dall’insano desiderio di coprire gli errori altrui, commettendone di nuovi e perciò di più gravi.
Oggi i giudici italiani sono garantiti nella loro libertà di giudizio? Non molto, a dire il vero.
Anche perché militano in senso contrario la vicinanza politica di molte forze e soprattutto la divisione in correnti, il vero cancro della magistratura italiana.
Sicché, sembra risuoni ancora il monito espresso da Salvatore Satta molti decenni fa, allorché notava ( nei “Quaderni del diritto e della procedura civile”) che i giudici italiani devono guardarsi, per tutelare la loro indipendenza, proprio da quell’organo che dovrebbe tutelarla e che invece sottilmente la insidia: il Consiglio Superiore della Magistratura.
Ogni popolo ha il suo Dreyfus, questa in fondo la lezione della storia.
E non si creda che l’affaire sia alla fine stato pacificato nella coscienza pubblica dei francesi. Infatti, nel 1994 – appena oltre un ventennio fa – l’allora sindaco di Parigi Chirac aveva commissionato un busto bronzeo di Dreyfus – in occasione del centenario del caso – per collocarlo presso l’Ecoile Militaire. Ma i militari si opposero con fermezza, dirottando la statua ai giardini delle Tuileries.
Il caso Dreyfus, per i francesi, non è ancora chiuso. E per noi?