Nella sua cella occhieggiano fotografie di belle donne, animali feroci e armi d’assalto, quasi una caricatura hollywoodiana del boss latino con la sua iconografia trash e il testosterone che trasuda anche dalle mattonelle. Ma Adolfo Macias detto “Fito”, 46 anni, capo indiscusso della gang ecuadoregna dei Los Choneros e nemico pubblico numero uno è proprio così.

Barba foltissima, sguardo torvo, cappello a larghe tese e un esercito-milizia di oltre 8mila uomini (i Los Choneros sono un’estensione del famigerato cartello messicano di Sinaloa), ma anche un’icona pop, autentico oggetto di culto per migliaia di aspiranti narcos che celebrano la sua saga con tatuaggi pacchiani, dove è raffigurato accanto a Gesù Cristo, a leoni della savana e agli immancabili kalashnikov.

Qualche anno fa sua figlia, nota in Ecuador come Queen Michelle, ha realizzato un grottesco video musicale in suo onore, El corrido del leon, in cui si vede Fito aggirarsi tranquillo per la prigione di Guayaquil (la stessa da dove è evaso tre giorni fa) mentre accarezza gli amati galli da combattimento con montaggio alternato a simpatici mariachi che tessono le lodi del «grande uomo» infangato dai media e dai politici corrotti. Uno degli aspetti più interessanti dei Los Choneros è la propaganda rivolta agli strati più poveri della popolazione, presentandosi come dei Robin Hood vicini al popolo e in lotta contro un sistema economico ingiusto.

A Guayaquil era il padrone assoluto e il carcere era diventato una specie di reggia con escort, musicisti, fuochi d’artificio e festini esotici, un po’ come fu La Catedral per il colombiano Pablo Escobar di cui Fito sta ripercorrendo rapidamente le orme. Con la stessa garra e la stessa spietatezza. Elementi necessari per l’ascesa, fulminea, alla testa della gang. Era il braccio destro di Jorge Luis Zambrano, il legittimo leader dei Los Choneros, assassinato nel dicembre 2020 in una caffetteria di un centro commerciale a Manta, un omicidio che avrebbe commissionato personalmente dalla sua cella di Guayaquil per assumere il comando supremo.

Doveva scontare una pena di 34 anni e affermava di essersi redento, di aver rinunciato al traffico di droga e alla violenza. Nel 2021 quando la figlia venne rapita per alcune settimane da un clan rivale, elogiò la professionalità della polizia che la riportò a casa in perfetta salute. E per dimostrare di essere cambiato si è persino laureato in giurisprudenza, sostenendo di voler diventare avvocato. Questa estate è però stato accusato di essere il mandante dell’attentato al candidato alla presidenza Fernando Villavicencio, ucciso a colpi a colpi di arma da fuoco lo scorso agosto da un sicario colombiano, pur non trovando le prove, le autorità lo avevano trasferito per qualche settimane in una prigione di massima sicurezza per poi fare dietrofront e riportarlo nella “sua” Guayaquil.