PHOTO
Sapevo bene, per vecchia amicizia, per la nostra comune origine pugliese e per la nostra quasi coetaneità, essendo lui di soli quattro mesi meno anziano di me, che Luciano Pellicani fosse un intellettuale scomodo, troppo orgoglioso per corteggiare chicchessia e troppo geloso e convinto delle sue idee per scambiarle con un incarico o, nel nostro campo giornalistico, con una collaborazione. O con qualche riconoscimento postumo. Ma, francamente, non mi sarei mai aspettato che la sua morte, avvenuta in circostanze non so se più penose o drammatiche, il giorno dopo avere compiuto 81 anni, vittima anche lui di questo maledetto coronavirus accertato, temo, con troppo ritardo, passasse inosservata sui giornali di questa anomala e tragica Pasqua. Eppure la notizia era stata diffusa in tempo perché ciò potesse essere evitato. Di tutti i quotidiani che ho potuto consultare di prima mattina sulla più completa e tempestiva rassegna stampa di cui disponiamo, che è quella del Senato della Repubblica, nessuno ha trovato un angolino in prima pagina per darne notizia: neppure il Corriere della Sera, di cui egli fu collaboratore. E neppure la “sua” e nostra Gazzetta del Mezzogiorno. Con Luciano Pellicani è scomparso un uomo di grandissima cultura, coerenza e generosità, un Maestro, con la maiuscola, che sarà sicuramente rimpianto dalle migliaia, anzi decine di migliaia di studenti che ne frequentarono le lezioni di sociologia politica e antropologia culturale alle Università, ultima quella intestata a Guido Carli, la famosa Luiss. Dove Luciano diresse anche la scuola di giornalismo. Uomo più di studio che di palcoscenico, più riservato che vanitoso, con quei capelli sempre scomposti per la furia con la quale se li scuoteva leggendo e riflettendo, più assetato di ricerca culturale che di potere, Pellicani fu tra i protagonisti, secondo solo a Bettino Craxi, formatosi non a caso anche leggendo i suoi saggi, della stagione del riformismo socialista tra la fine degli anni Settanta e tutti gli anni Ottanta. Allora il pur organizzatissimo, miltarizzatissimo e finanziatissimo Partito Comunista, peraltro guidato da un personaggio carismatico come Enrico Berlinguer, rischiò di perdere davvero l’egemonia a sinistra un po’ furtivamente guadaganata nelle storiche elezioni politiche del 1948. All’errore del “fronte popolare” compiuto dal leader socialista Pietro Nenni in quel passaggio della storia italiana, anche a costo di spaccare il suo partito con la scissione socialdemocratica di Giuseppe Saragat, consumatasi nel 1947 a Palazzo Barberini, si aggiunse la disinvoltura del Pci di Palmiro Togliatti di boicottare i candidati socialisti, per cui nelle Camere arrivarono più numerosi i comunisti dei loro alleati, prevalsi invece nelle elezioni precedenti. Da allora la storia della sinistra italiana prese un verso tutto favorevole alla Democrazia Cristiana, sino a quando Bettino Craxi, raccolto nel 1976 quel che restava del Psi dopo l’impegno elettorale assunto dal suo predecessore Francesco De Martino di non riportarlo mai più al governo senza i comunisti, non risventolò la bandiera dell’autonomismo. Che già aveva consentito nel 1963 la nascita del centro-sinistra. Così egli sottrasse la sinistra alla prospettiva di un’eterna e sterile opposizione, peraltro nel mondo ancora bipolare uscito dagli accordi di Yalta, in cui il comunismo aveva addirittura eretto un muro a Berlino per separare l’Europa dell’Est da quella dell’Ovest, lungo la famosa cortina di ferro già avvertita e denunciata da Winston Churchill. Appena eletto segretario, col proposito dichiarato di fare sopravvivere il Psi all’appiattimento ai comunisti voluto da chi lo aveva preceduto, Craxi citò in un intervento un saggio di Luciano Pellicani, passato in quei tempi inosservato, su Eduard Bernstein: un politico, filosofo e scrittore tedesco, già esecutore testamentario di Friederich Engels e sostenitore di una profonda revisione del marxismo, che Lenin riteneva invece di avere realizzato in Russia col sangue e la famosa dittatura del proletariato. Lusingato della citazione, Pellicani telefonò a Craxi per ringraziarlo. Ne nacque un rapporto d’amicizia e di simbiosi culturale tale che meno di due anni dopo, quando Enrico Berlinguer rilanciò imprudentemente l’attualità del leninismo pur nella cornice di quello che allora fu chiamato “eurocomunismo”, per renderlo più digeribile agli occidentali e all’elettorato moderato, Craxi incaricò proprio Pellicani di preparargli un intervento di risposta. Che con la firma del segretario socialista fu pubblicato nel 1978 dall’Espresso col titolo del “Vangelo socialista”, tutto ispirato al rivale culturale e politico di Marx, che era stato il francese Pierre Joseph Proudhon, teorizzatore del socialismo libertario e umanitario, contrapposto al dogmatismo comunista. Fu il guanto di sfida del nuovo leader socialista italiano a Berlinguer, per conto del quale rispose curiosamente, più che il segretario del Pci dall’Unità o da Rinascita, che pure era stata da lui adoperata negli anni precedenti per lanciare la proposta e prospettiva del cosiddetto compromesso storico con la Dc, Eugenio Scalfari dalle colonne della sua Repubblica di carta. Che, sostituendosi ai giornali ufficiali del Pci, rimproverò a Craxi, sin dal titolo, di avere osato “tagliare la barba a Marx”. Da allora non ci fu più tregua a sinistra in una lotta che da una parte portò Craxi, nel 1983, a Palazzo Chigi per guidare un governo di coalizione fra democristiani, socialisti, socialdemocratici, repubblicani e liberali, e dall’altra Berlinguer in un affannoso inseguimento conclusosi tragicamente con la sua morte nel 1984, l’anno dopo. Un politico e autore insospettabile come Piero Fassino, peraltro l’ultimo segretario dei Ds-ex Pci prima della fusione con la Margherita di Francesco Rutelli nel Pd di Walter Veltroni, ebbe poi il coraggio o l’onestà, come preferite, di riconoscere che in quella rincorsa Berlinguer si era reso tanto consapevole di perdere la partita da preferire in qualche modo la morte sul campo, colto da un ictus nelle ultime battute di un comizio elettorale a Padova. Già convinto al momento della sua laurea a Roma in scienze politiche, nel 1964, con una tesi di Antonio Gramsci, che il comunismo fosse destinato solo a fare danni, Pellicani dopo l’arrivo di Craxi a Palazzo Chigi assunse nel 1985 la direzione della storica testata socialista di Mondoperaio per farne la punta di lancia dell’anticomunismo da posizioni rigorosamente di sinistra. E vi rimase talmente fedele che, costretto a chiudere la rivista con la fine del Psi, non perdonando peraltro a Craxi di avere lasciato infangare il socialismo con la pratica del finanziamento illegale del partito e della corruzione che spesso ne seguì, la riesumò personalmente nel 2000, durante la cosiddetta seconda Repubblica, senza volersi mai confondere col centrodestra. Dove l’anticomunismo aveva portato invece parecchi socialisti: in Forza Italia o addirittura in Alleanza Nazionale. Partecipe tuttavia di una manifestazione dell’Ulivo prodiano il 3 aprile del 2002, Pellicani si guadagnò coraggiosamente fischi e altri tipi di contestazione con un intervento contro i “girotondini”, allora di moda, ma soprattutto contro l’idolo della sinistra giustizialista che era diventato Antonio Di Pietro, l’ex magistrato simbolo della stagione giudiziaria e politica di “Mani pulite”. Ah, Luciano, quanto di debbo culturalmente e umanamente. E quanto mi mancherai.