PHOTO
39 ANNI FA GLI OMICIDI DI ACCA LARENTIA
Iragazzi di estrema destra degli anni 70 “persero l’innocenza” 39 anni fa a Roma, in via Acca Larentia dove c’era una sede del Msi: lì il 7 gennaio un gruppo di sinistra sparò a cinque di loro, uccidendone due. Anche quest’anno si chiederà, da destra, verità su quegli omicidi; speculari a chi, da sinistra, chiede la stessa verità per altri morti come Fausto e Iaio. Come se avesse senso, 40 anni dopo, mettere in galera chi, da una parte e dall’altra, combatteva una guerriglia strisciante. IL 7 GENNAIO DI 39 ANNI FA L’ASSALTO DI SINISTRA CONTRO UNA SEDE DEL MSI. DUE I MORTI
Iragazzi di estrema destra degli anni 70 “persero l’innocenza” 39 anni fa a Roma, in via Acca Larentia. In realtà non è chiaro cosa s’intenda con questa definizione confusa e un po’ ambigua, adoperata tuttavia innumerevoli volte a proposito della strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 e degli effetti che produsse sui giovani militanti rivoluzionari di sinistra. Ma se si allude a una cesura che provocò la perdita totale di fiducia nello Stato e nella rappresentanza istituzionale della propria parte politica, nei partiti insomma, e che indusse in alcuni scelte drastiche e sanguinarie, allora la piazza Fontana della destra giovanile fu davvero via Acca Larentia. Una piazzetta rialzata, neppure 300 mq, separata da via delle Cave da una scaletta da un lato e dall’altro isolata dalla strada parallela da una fila di piloni. Uno spiazzo chiuso al traffico che è “via” solo di nome, nel quale campeggia dal 1945 la sezione che allora era del Movimento sociale italiano.
Era schierato davanti ai piloni il commando dei Nuclei per il contropotere territoriale, sigla sconosciuta che sarebbe ricomparsa solo qualche mese dopo, nel marzo 1978, per inneggiare al sequestro Moro con un volantino fatto ritrovare a Trento e poi nei primi sei mesi del 1979 a Bergamo, con una serie di azioni antifasciste. Cinque o sei giovani a volto semiscoperto, armati di pistole e di una mitraglietta Skorpion che era stata regolarmente acquistata sette anni prima in un’armeria di Sanremo dal cantante Jimmy Fontana, per essere poi rivenduta da quest’ultimo a un funzionario di polizia, che tuttavia ha sempre negato l’acquisto. La stessa mitraglietta è stata ritrovata, dieci anni dopo la mattanza, in un “covo” delle Brigate rosse, portata probabilmente in dote da un militante passato alla principale organizzazione armata di sinistra dopo l’eccidio del 7 gennaio 1978, col quale le Br non avevano evidentemente nulla a che fare.
Nella sezione del Msi, la sera del 7 gennaio 1978, c’erano cinque militanti, tutti giovanissimi. Il commando apre il fuoco appena escono per recarsi a un concerto della band di destra “Amici del vento” in Prati: tre riescono miracolosamente a rientrare nella sezione, due ragazzi restano a terra. Franco Bigonzetti, vent’anni, che aveva aperto la porta ed era quindi stato il primo a uscire e a essere colpito a morte, Francesco Ciavatta, diciotto anni, aveva provato a fuggire ed era stato fulminato a pochi metri dalla sezione. Agonizza per qualche minuto, poi spira anche lui. Suo padre si suiciderà poco tempo dopo, ingoiando una bottiglietta d’acido muriatico sulla panchina di un giardinetto della Capitale.
Dei tre superstiti uno, Vincenzo Segneri, è ferito a un braccio, gli altri due, Maurizio Lupini e Giuseppe D’Audino, sono illesi.
Il gruppo di fuoco non è mai stato identificato. Nel 1987, sulla base della testimonianza di una Br pentita, sono state arrestate cinque persone, assolte tre anni dopo. Tutti liberi tranne uno, Mario Scrocca, impiccatosi in cella pochi giorni dopo l’arresto. Anche quest’anno, come in ogni 7 gennaio, si leveranno alte le voci che da destra chiedono verità su quegli omicidi, speculari a quelle che, da sinistra, chiedono la stessa verità, la stessa individuazione tardiva dei colpevoli, per gli assassini di Fausto e Iaio a Milano o di Valerio Verbano a Roma. Come se avesse senso, a quarant’anni di distanza, mettere in galera i ragazzi che, da una parte e dall’altra, combattevano allora una guerriglia strisciante, spesso una vera “guerra per bande”, inspiegabile e criminale solo a guardarla con gli occhi del presente.
O come se ci fosse qualche mistero da chiarire, qualche incognita da svelare sul perché di quegli omicidi. Basterebbe invece sfogliare i quotidiani del mese precedente, che riportano praticamente ogni giorno la notizia di un’aggressione contro passanti considerati “di sinistra” sulla base della lunghezza dei capelli o dell’abbigliamento al centro di Roma. La città era divisa a macchie di leopardo già da anni: c’erano quartieri in cui era pericoloso passare per i rossi e zone precluse ai neri. Ma il centro, sino a quel momento, era rimasto abbastanza neutrale. L’occupazione da parte dei fascisti, alla quale i giornali davano enorme risalto, costituiva un’alterazione sensibile degli equilibri, e del resto proprio dopo Acca Larentia Pino Rauti, il dirigente del Msi più vicino all’area giovanile e ribelle, chiese ufficialmente una “tregua” ed è un fatto che le aggressioni al centro cessarono. Non c’è molto d’altro da spiegare.
Se le cose si fossero fermate lì, la tragedia non sarebbe stata altrettanto traumatica. Uccisioni e ferimenti tra militanti di destra e sinistra non erano magari all’ordine del giorno ma quasi. Però non finì lì. Decine, forse centinaia di militanti di destra convergono su Acca Larentia. Tra loro c’è Stefano Recchioni, un ragazzo di 18 anni che suona nella rock band di destra Janus e che è in attesa di partire per il servizio militare entro una decina di giorni. La tensione, nella piazzola, è altissima e cosa provochi la nuova tragedia resterà per sempre un mistero. Sta di fatto che a un certo punto la polizia schierata in forze inizia a tirare lacrimogeni. Il capitano Edoardo Sivori apre il fuoco, la pistola s’inceppa, se ne fa passare un’altra, continua a sparare. Vicino a Recchioni ci sono Bruno Di Luia, storico militante e picchiatore tosto del neofascismo romano, e Francesca Mambro, una delle prime ad arrivare perché il fratello Mariano frequenta abitualmente Acca Larentia. Lo vedono cadere, ferito alla testa. Morirà due giorni dopo in ospedale.
Il ministro degli Interni Cossiga si prodigherà subito per evitare ogni accusa al capitano Sivori, oggi generale, che del resto non verrà mai inquisito. Circoleranno perizie di dubbio valore che lo scagionerebbero. Lo stesso Cossiga, decenni più tardi, riconoscerà di aver fatto il possibile e anche qualcosina in più per proteggere il capitano Sivori, incluso il farlo espatriare poco dopo il fattaccio.
Il Msi comunque non muove un dito per mettere il capitano sotto accusa. Quando i giovani militanti, furiosi, vanno a cercare Almirante, che è invece all’estero, vengono invece ricevuti da Pino Romualdi, fondatore del partito. Li affronta e respinge senza mezzi termini. Polizia e carabinieri costituiscono uno dei principali bacini elettorali del partito: perdere quella massa di voti è fuori discussione. Ma non c’è solo questo. Da anni il partito neofascista ha fatto del supporto e dell’esaltazione delle forze dell’ordine il perno della sua politica. Non è probabilmente solo per opportunismo che la sua leadership non vuole e forse non può attaccare direttamente un carabiniere. La difficoltà, del resto, non deve riguardare solo i dirigenti. Tra tutti i militanti presenti in via Acca Larentia al momento dell’uccisione di Stefano Recchioni, una sola, Francesca Mambro, avrà il coraggio di presentarsi in questura per denunciare Sivori.
Molti non se la sentono di mettersi contro le forze dell’ordine e contro il partito. Altri però evitano la denuncia perché sono già oltre quella fase, già pronti, come arriverà a essere presto anche Mambro, a uno scontro con lo Stato, ma anche col Msi, ben più estremo. Il trauma del 7 gennaio ‘ 78 arriva infatti al termine di una fase che non è esagerato definire come “il ‘ 77 nero”. I giovani neofascisti di fine decennio, a differenza dei fratelli maggiori, somigliano ai loro nemici. Formano band rock. Discutono di musica, fumetto e cultura alternativa. Celebrano il nuovo corso nel primo Campo Hobbit, che si svolge proprio nel ‘ 77. Revocano in dubbio lo schieramento a favore dell’ordine e si reinventano come rivoluzionari. Mettono in discussione il primato sino a quel momento assoluto dell’anticomunismo e vagheggiano anzi alleanze tra il radicalismo di destra e quello di sinistra contro il comune nemico: lo Stato borghese. I fascisti “rivoluzionari” e antisistema scelgono di marcare la differenza adottando un simbolo alternativo alla fascia tricolore, la croce celtica, che Almirante tenterà invano di proibire.
Allo stesso tempo cresce un’insofferenza contro il partito che usa i giovani come servizio d’ordine, come truppa indispensabile per rendere agibili le piazze e le strade, salvo poi scaricarli per difendere una linea politica tutta centrata sulla difesa dell’ordine. Dopo la sua uccisione molti ricorderanno una frase tragicamente profetica di Stefano Recchioni: «I dirigenti ci usano come carne da macello». Come il ‘ 77 rosso è segnato dallo scontro frontale con il Pci, quello neofascista vede una progressiva presa di distanza, simile ma non identica dal Msi. Il partito della fiamma tricolore, a differenza del Pci, non è un partito di potere ed è ormai tagliato fuori anche da quella partecipazione frequente alle amministrazioni locali, in alleanza con la Dc, che era stata invece frequente negli anni 50 e 60. Non può permettersi una rottura clamorosa con la propria area giovanile come quella che sceglie invece il partito di Berlinguer. Dunque li sconfessa ma in maniera “morbida”. Smette di pagare gli affitti delle sezioni più ribelli e incontrollate, come quella di Monteverde che formerà il nucleo centrale dei Nar, o come quella del Fuan di via Siena che diventerà il centro del ‘ 77 nero. Ma la distanza diventa sempre più incolmabile ed esplode dopo gli spari di Acca Larentia.
I giovani fascisti si scontrano per giorni con la polizia, ed era successo pochissime volte in passato: a Reggio Calabria, nel 1970- 71, durante la più lunga rivolta urbana dell’intero occidente post- bellico, poi a Milano, il 12 aprile 1973, quando era stato ucciso l’agente Antonio Marino. In quell’occasione era stato lo stesso Msi a denunciare i responsabili. Stavolta i giovani fascisti ingaggiano vere battaglie, e non solo a Roma. Per la prima volta il nucleo dei futuri Nar spara non sui compagni ma sulle forze dell’ordine. Nel mirino però, ancora più degli agenti, c’è l’estabishment del Movimento sociale italiano.
ANCHE QUEST’ANNO SI LEVERANNO ALTE LE VOCI CHE DA DESTRA CHIEDONO VERITÀ; LA STESSA VERITÀ CHE A SINISTRA SI CHIEDE PER GLI ASSASSINI DI FAUSTO E IAIO O DI VALERIO VERBANO.
COME SE AVESSE SENSO, A 40 ANNI DI DISTANZA, METTERE IN GALERA I RAGAZZI CHE, DA UNA PARTE E DALL’ALTRA, COMBATTEVANO UNA GUERRIGLIA STRISCIANTE