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A Teheran il boia non va mai in vacanza. Almeno 975 esecuzioni sono state portate a termine in Iran nel 2024, una buona parte tramite il brutale metodo dell’impiccagione, una “specialità” del regime degli ayatollah.
Lo denunciano gli attivisti per i diritti umani, lamentando un’impennata della violenza di Stato che dalle manifestazioni di piazza del 2022 ha aumentato i giri della repressione. Si tratta infatti della percentuale più elevata di sempre, una «escalation spaventosa nel ricorso alla pena di morte», affermano di fronte ai dati che parlano di un aumento del 17% rispetto alle 834 esecuzioni registrate nel 2023, secondo l’organizzazione Iran Human Rights (Ihrngo), con sede a Oslo, e Together Against the Death Penalty (Ecpm), basata in Francia.
Si tratta anche del dato più allarmante mai emerso dal primo rapporto di Ihrngo diffuso nel 2008. «La pena di morte viene utilizzata come arma e strumentalizzata contro persone che sono vulnerabili e deboli, tipicamente di comunità marginalizzate», ha commentato Javaid Rehman, in passato relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani in Iran.
La maggior parte delle esecuzioni nel 2024, 503 ovvero il 52% del totale, vengono segnalate nell’ambito di casi legati a reati in materia di stupefacenti, rilevano le organizzazioni. Nel 43% dei casi si tratta di accuse di omicidio.
Secondo il rapporto, c’è stato un «forte aumento» nel numero di esecuzioni registrate dopo le elezioni presidenziali e l’arrivo di Masoud Pezeshkian alla guida del Paese nella seconda metà dello scorso anno. «Mentre l’attenzione globale era concentrata sull’escalation di tensioni tra Iran e Israele, la Repubblica Islamica ha sfruttato la mancanza di attenzione internazionale per terrorizzare la sua popolazione, arrivando fino a cinque, sei esecuzioni al giorno», ha sottolineato il direttore di Ihrngo, Mahmood Amiry Moghaddam. E il rapporto è solo una fotografia parziale della realtà.