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«Sono un po’ stanca», sussurra Liliana Segre. Sulla sua pelle il numero di matricola - 75190 non è mai andato via, eterno promemoria di una prigionia vissuta con gli occhi di una bambina strappata dalle braccia del padre. Un dolore mai addomesticato, tanto da far spegnere le parole. Ma il ricordo, ripete la senatrice a vita, è importante. Ed è per questo che onorare il 25 aprile non può non essere considerato un obbligo morale. «Chi fa politica - spiega - non può ignorare la storia. Ricordare è un dovere. Ma si vuol far dimenticare o si dimentica. Per età, tempo e anche per convenienza».
Deportata da Milano al campo di concentramento nazista di Auschwitz-Birkenau il 30 gennaio 1944, Segre il 19 gennaio dello scorso anno è stata scelta dal presidente Sergio Mattarella come membro permanente del Senato. E nel suo primo discorso all’Aula ha messo in guardia tutti contro l’odio, contro la tentazione dell’indifferenza e l’hate speech. Un imbarbarimento della società contro il quale si è battuta fin dal suo ingresso in Senato, con un disegno di legge per istituire una commissione parlamentare d’indirizzo e controllo sui fenomeni dell’intolleranza, razzismo e istigazione all’odio social. Un dovere, visti i continui episodi di violenza e di intolleranza. «Perché la paura del diverso viene da molto lontano e non è mai passata».
Senatrice, che ricordo ha del 25 aprile del 1945?
Io ero ancora una prigioniera, non sapevo nemmeno che ci fosse il 25 aprile. Erano gli ultimi giorni della prigionia, ma noi prigionieri non sapevamo niente di quello che succedeva fuori dal campo. Non avevamo un orologio già da tempo, né un giornale, né era possibile sentire una radio. Non sapevamo nulla. Alla mia liberazione mancava una settimana, ma non potevo saperlo. Quando sono tornata in Italia, dopo mesi, da sola e ho saputo come erano andate le cose, come era andata storicamente, ero una ragazzina molto giovane e molto sofferente per tutto quello che mi era successo.
Quando ha preso consapevolezza di quello che era accaduto?
È cresciuta col tempo, con gli anni. Per questo dico che quello che oggi non si studia più, cioè la storia, è invece molto importante, proprio per sapere come si è arrivati a una data come questa e anche per capire per quale motivo, ora, non si deve o non si vuole o non si insegna più la storia. Non studiandola più, avendola declassata a materia poco importante, si impedisce alle giovani generazioni di capire cos’è stato come resurrezione, dopo il fascismo, dopo l’abiezione, dopo la guerra, dopo i morti, il 25 aprile.
Quale ricordo le è rimasto più impresso?
C’è l’atto tragico, quello di essere sola, separata per sempre da mio padre a soli 13 anni. La solitudine con la quale ho affrontato la prigionia è stata una delle cose più tragiche. Infatti dico sempre che gli adolescenti, di cui oggi ci si preoccupa tanto, sono fortissimi. Perché io l’ho visto su di me quanto si può essere forti, quando è il momento. Mi ci sono voluti così tanti anni prima di lenire la ferita di quella solitudine disperata…
E poi?
E poi c’è il momento della liberazione, quando si sono aperti i cancelli e sulla strada nemica, una strada tedesca, sono venuti incontro gli americani, ai quali sarò per sempre grata, e abbiamo capito che era finita. Avevo 14 anni, li avevo compiuti nel campo di concentramento.
Cosa ricorda di quel compleanno?
Non sapevo neanche che giorno fosse, forse l’ho saputo da qualche nuova prigioniera che mi ha detto in che mese ci trovassimo. Sicuramente non abbiamo spento nessuna candelina, c’erano candele diverse…
Il momento più doloroso?
Quando mi hanno separata da mio padre. È stato lo spartiacque tra la mia vita prima e la mia vita dopo, una pietra tombale sulla mia infanzia, che è finita in quel momento.
C’è stata molta polemica politica sul 25 aprile e sul suo significato. Cosa ne pensa?
Siamo al punto in cui si vuol far dimenticare o si dimentica, per questione di età, di tempo e anche di convenienza, cosa significhi questa data. Ma penso che chi fa politica non possa ignorare la storia.
Lei incontra molti giovani nelle scuole: che impressione si è fatta?
C’è una generazione di ragazzi che vive attaccata ai telefonini, che offrono il modo per anestetizzare le menti. Ed è difficile resuscitare sentimenti così importanti come lo erano quelli del 25 aprile. La parola libertà viene messa in palio solo quando si tratta di un premio da parte dei genitori per uscire la sera, per fare il proprio comodo. Ma la parola libertà significa altro quando si è stati prigionieri non solo di cancelli e di muri ma quando anche le menti sono state prigioniere di teorie che hanno portato alla disperazione, alle guerre, ai genocidi. Questo torpore delle menti, allora, fa sì che si possa far decidere qualunque cosa a livelli più alti. Poi il tempo che passa fa la sua parte.
È per questo che sono importanti la memoria e voci come la sua?
Ormai la mia è una voce che si sta spegnendo e sono sempre meno le persone che ricordano. Le persone muoiono e oggi ci sono altri traguardi da raggiungere, che sono di popolarità, di guadagno, di falsi idoli, personaggi che scelgono il campo della moda, del calcio. Sono degli idoli diversi e oggi raggiungere quella popolarità, essere una donna fotografata, importa molto di più che essere, ad esempio, una donna colta. Pensare di diventare un’eroina fa sorridere. E se a una ragazzina, di questi tempi, chiedi cosa vuole diventare da grande ti risponderà che vuole fare televisione.
Non ci sono più valori?
I valori sono stati sommersi, mettiamolo così. E, alla Primo Levi, ancora non sono stati salvati. Sono solo sommersi, appunto.
(Intervista rilasciata il 25 aprile 2019)