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E’ il 2 marzo del 1939 quando Eugenio Pacelli – nel mezzo degli anni bui dell’occupazione nazista a Roma – viene eletto Papa col nome di Pio XII. Oggi – a poco più di ottant’anni di distanza ma nello stesso giorno – Papa Bergoglio decide non a caso di rispolverare proprio quella data per consentire la tanto attesa apertura degli Archivi Vaticani. In particolare, l’accesso alla documentazione archivistica relativa al Pontificato di Papa Pacelli, documentazione sinora rimasta secretata. “Assumo questa decisione con animo sereno e fiducioso – ha spiegato fa Papa Francesco –, sicuro che la seria e obiettiva ricerca storica saprà valutare nella sua giusta luce, con appropriata critica, momenti di esaltazione di quel Pontefice e, senza dubbio, anche momenti di gravi difficoltà e di tormentate decisioni che a taluni poterono apparire reticenza”. Così la chiama Bergoglio, reticenza, ma in realtà l’accusa che da anni e da più parti viene mossa a Pio XII è assai più grave: il Pontefice avrebbe taciuto davanti ai rastrellamenti e alle deportazioni degli ebrei romani e la Santa Sede sarebbe stata in qualche modo responsabile della Shoà. Accuse pesanti che i sessanta - tra studiosi e ricercatori - che oggi varcheranno le porte del Vaticano sono chiamati a confermare o a confutare. Un’enorme mole di documentazione da esaminare e rispetto alla quale il giudizio rischia facilmente di farsi preconcetto, apologetico o accusatorio che esso sia. “Per amore della verità – ha scritto qualche giorno fa il Rabbino Capo di Roma Riccardo Di Segni - sarebbe utile trovare prove decisive in un senso o nell'altro, e potersi ricredere in base ai dati oggettivi; ma già è stato detto, e a ragione, che se ci fossero stati documenti decisivi da proporre, sarebbero stati divulgati da molto tempo, e che se ci sono effettivamente documenti decisivi non pubblicati non ci sono garanzie che vengano messi a disposizione degli studiosi”. Soprattutto in un momento in cui è in atto il processo di santificazione di Papa Pacelli. E quei silenzi pesano, nonostante nessuno neghi l’ospitalità che a molti tra i perseguitati venne data da conventi, monasteri o semplici cattolici che misero a repentaglio anche la propria vita rischiando di soccombere sotto le brutali rappresaglie dei nazifascisti. Ma la storia è altrove. Quando il nazismo prese il potere in Germania e l’antisemitismo si avviò a diventare una vera e propria ideologia, la Chiesa di Roma si trovò del tutto impreparata ad affrontare il problema con la dovuta chiarezza. Certo non erano mancate nel passato recente della Chiesa, prese di posizione – politiche e giornalistiche – che avevano guardato con simpatia all’antisemitismo ma le gerarchie ecclesiastiche avevano cercato di mantenere le distanze dagli eccessi razzistici di tipo biologico. Tuttavia, qua e là, una sostanziale benevolenza continuava a trasparire come hanno dimostrato alcune corrispondenze private tra numerosi membri della Curia. Con l’avvento al potere di Hitler il quadro si modifica radicalmente: rinnegare il recente passato sarebbe stato impossibile ma altresì sarebbe stato imbarazzante dimostrare simpatia per il razzismo e l’antisemitismo dei nazisti, peraltro teorizzati da un regime che non nascondeva la sua ostilità nei confronti della stessa Chiesa cattolica. L’imbarazzo delle gerarchie vaticane era tangibile e certo non facilitò l’assunzione da parte delle autorità ecclesiastiche di una presa di posizione in favore degli ebrei. Restano emblematiche di un tentativo di svolta sulla questione antisemita le parole pronunciate da Pio II proprio nei giorni in cui, in Italia, venivano emanate le leggi razziali: “L’antisemitismo – sosteneva il pontefice nel settembre del ’38 – è un movimento antipatico, un movimento al quale non possiamo, noi cristiani avere alcuna parte”. Il pontefice si era indirizzato decisamente verso una aperta presa di posizione contro l’antisemitismo. Affidando al gesuita americano La Farge la stesura di una specifica enciclica sull’argomento, egli aveva avviato una svolta che non saremo mai in grado di valutare nelle sue possibili conseguenze: l’enciclica, completata già a settembre del ’38, non vide mai la luce. La morte di Pio XI impedì che il progetto seguisse il suo corso e il nuovo papa, Pio XII, fece proprio il diffuso desiderio degli ambienti vaticani di dimenticare tensioni e contrasti. Quella di Pio XI rimase una sterzata isolata e l’iniziativa di Pio XII di avviare – già all’indomani della sua elezione e con l’appoggio dei cardinali tedeschi – un nuovo tentativo di distensione e di riavvicinamento con il Terzo Reich confermò ancora una volta che, nell’ottica del Vaticano, la “questione ebraica” e l’antisemitismo non rappresentavano un ostacolo per la realizzazione di questo fine. Bastava, semplicemente, non parlarne. Con lo scoppio della guerra anche il riserbo si accentuò sino a diventare un silenzio assordante. Oggi, con la riapertura degli Archivi vaticani, è finalmente arrivato il momento di sapere non solo “cosa” si è taciuto ma anche “perché” si è taciuto.