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Si dice spesso che il garantismo è come una portata à la carte, buona da servire quando ci torna utile. E questa è anche un po’ la ragione per cui principi sacrosanti posti alla base del nostro Stato di diritto risultano insopportabili ai più, come se non bastasse il fatto che il garantismo è di per sé pensiero minoritario e “controintuitivo”.
Un’altra cosa che si dice spesso, dalle parti di chi invece quel pensiero lo abbraccia con autenticità, è che il femminismo ne fa carta straccia. Passandoci sopra come un bulldozer armato delle ragioni di una battaglia culturale e sociale altrettanto sacrosanta. Ecco, i due discorsi si incrociano in moltissimi casi, e di esempi ce ne sono in quantità.
Il più recente riguarda la polemica per la partecipazione alla Fiera del libro di Roma del filosofo Leonardo Caffo, sotto processo per maltrattamenti sull’ex compagna. La scelta di invitarlo in una cornice dedicata a Giulia Cecchettin ha scatenato la furia di chi ha chiesto e ottenuto la sua esclusione, con un passo indietro dello stesso autore. Mentre Chiara Valerio, che della Fiera cura il programma, provava a ricordare a tutti che Caffo è innocente fino a sentenza definitiva. Come chiunque altro.
L’argomentazione non ha attecchito, tutt’altro, e per una serie di ragioni. Tra cui il fatto che in questo caso, sostengono in molti, si trattava di una questione di “opportunità”. Il che ci porta a una domanda: un principio, in quanto tale, non è valido sempre? E non vale a prescindere da chi (e perché) lo pronuncia?
Proviamo a rovesciare la questione. Nel 2023 a Milano sono apparsi dei volantini contro Ignazio La Russa e suo figlio Leonardo Apache, accusato di violenza sessuale da una ragazza. I loro volti erano affiancati dallo slogan femminista “El violador eres tu” (lo stupratore sei tu), in risposta ad alcune dichiarazioni del presidente del Senato («lascia oggettivamente molti dubbi il racconto di una ragazza che, per sua stessa ammissione, aveva consumato cocaina prima di incontrare mio figlio»).
Bersaglio della protesta, evidentemente, era il tentativo di svilire la credibilità di una donna che denuncia, una modalità che rientra a pieno titolo tra le pratiche degradanti messe in atto dalla notte dei tempi nei processi per stupro, come insegna dal 1979 l’avvocata Tina Lagostena Bassi. È la cosiddetta “vittimizzazione secondaria”, di cui abbiamo prova sui giornali e nei tribunali. Ma la mobilitazione nei confronti di un atteggiamento odioso, che mette sempre la donna sul banco degli imputati, può giustificare il linciaggio di un ragazzo (in quel momento neanche sotto processo)?
Sulla piattaforma della manifestazione di sabato scorso in occasione del 25 novembre si legge: «Scendiamo in piazza mentre giunge a conclusione il processo a Filippo Turetta, intanto una ragazza di 13 anni viene uccisa dal “fidanzatino” di 15 anni. Sappiamo bene che non sono le sentenze esemplari che cambieranno le cose. Guardiamo con sospetto ai riti collettivi che assolvono la società dalla responsabilità di queste morti». Laddove per “riti collettivi”, supponiamo, bisogna intendere il sistema giustizia. Come se il femminismo e quest’ultimo fossero in contrapposizione tra loro.
Come se interrogarci sul rispetto delle garanzie ci rendesse insensibili alla violenza di genere. In uno “scontro” ideale che non fa bene a nessuno, che rischia di utilizzare il codice penale come una clava. Che rischia di confondere una comprensibile rabbia sociale con le ragioni di un movimento talmente elaborato da racchiudere al suo interno molteplici posizioni e sensibilità. Pezzi di un pensiero “sofisticato” che dovrebbero lasciare sempre spazio alla riflessione e alla critica, nel disprezzo della censura.
Un sentimento di appartenenza, in sintesi, che sentiamo scorrerci nel sangue, che ci fa scendere in piazza, ma che troppo spesso ci fa domandare, come Margaret Atwood, se “siamo cattive femministe” soltanto perché difendiamo anche le ragioni del diritto, dal momento che «il sistema legale può essere aggiustato, oppure la nostra società potrebbe finire per sbarazzarsene». Davvero vogliamo perdere quest’occasione?