A questo punto è chiaro: lo scontro tra questo governo e la magistratura non può essere liquidato come l’ennesimo attrito tra istituzioni; questa volta il conflitto tra toghe e politica è a tutti gli effetti una resa dei conti, una sorta di battaglia finale che ridefinirà i confini tra i due poteri. Forse in modo permanente.

«La politica - ha detto il presidente dell’Anm Santalucia - attacca i giudici per screditarli e assoggettarli». Parole dure, pronunciate peraltro da un magistrato solitamente assai cauto e dialogante. La verità è che siamo al compimento di una guerra iniziata trent’anni fa con Tangentopoli, ovvero quella fase storica in cui la magistratura si è insediata negli spazi della politica ponendosi non più come giudice dei reati, ma arbitro dei valori etici, custode della giustizia, legislatore morale.

Ora, però, la politica sembra aver deciso di reagire, di riconquistare l’egemonia e quella che una volta si chiamava “agibilità”. Insomma, non è più la solita schermaglia. È qualcosa di più, di diverso, di definitivo. Questo governo ha l’intenzione (quasi) dichiarata di tornare a una dinamica politica-magistratura pre-tangentopoli attraverso riforme sacrosante e alcune forzature del diritto decisamente discutibili.

Non v’è dubbio, infatti, che in questi tre decenni la magistratura si è autoassegnata un ruolo che va ben oltre il controllo di legalità, ponendosi come custode dei valori etici e motore di un rinnovamento politico e morale. Ha travalicato le sue funzioni, ha sovrapposto i suoi obiettivi alle sue funzioni costituzionali, creando un equilibrio instabile tra i poteri.

Angelo Panebianco ha descritto in modo efficacissimo questa postura della magistratura parlando di «burocrazia guardiana» che «tiene sotto il tallone le classi politiche democraticamente elette». Ma ora questo ruolo egemonico vacilla. L’emendamento al Decreto flussi, la delegittimazione crescente delle correnti giudiziarie, il richiamo insistente alla separazione delle carriere: sono tutti segnali di un cambiamento imminente che la magistratura non ha alcuna voglia di far passare senza lottare.

Il caso dell’emendamento al decreto flussi, criticato dallo stesso Santalucia, è il più emblematico. Spostare la competenza delle convalide alla Corte d’Appello è visto come uno stravolgimento delle regole. E in effetti si tratta di una scelta assai fragile da punto di vista tecnico-giuridico. È dunque evidente che c’è di più, c’è dell’altro; si tratta infatti di una reazione politica a una “provocazione” altrettanto politica da parte della magistratura “engagé”.

La scelta di “rivolgersi” alle Corti d’Appello, è dunque un modo per ridisegnare i confini e riequilibrare le forze, è la risposta di un potere che tenta di emanciparsi dalla tutela delle toghe. In un fondamentale articolo pubblicato qualche tempo fa su costituzionalismo.it, Livio Pepino ha provato a smontare un luogo comune spesso associato a questo scontro: ovvero la “presunta politicizzazione della magistratura” come corpo unico. Pepino sottolinea come il numero di magistrati impegnati direttamente in politica sia oggi minimo rispetto al passato. Ma lo stesso Pepino riconosce il potere strabordante della magistratura, il suo crescente impatto sui diritti dei cittadini: «Sempre più il potere giudiziario incide sui diritti, sui beni, sull’onore, sulle libertà, sulla vita delle persone», osserva.

Il problema, allora, non è quella manciata di magistrati che abbandona la toga per entrare in politica, ma tutti coloro che continuano a indossarla e a utilizzarla per orientare i processi sociali e politici dalle aule di giustizia. Ed è qui che si gioca il vero scontro: non solo tra politica e magistratura, ma tra due diverse concezioni dello Stato di diritto.

Insomma, non stiamo assistendo a una semplice lotta tra poteri, ma a una narrazione “tragica”, un confronto tra due visioni del mondo. Da un lato una magistratura che si è illusa di essere garante dei valori costituzionali e arbitro dell’etica pubblica; dall’altro una politica che, pur con tutti i suoi limiti, tenta di riappropriarsi della capacità di governare. La posta in gioco è enorme: il ripristino di un equilibrio che forse non c’è mai stato, la definizione di confini chiari tra giustizia e politica.

Non si sa chi vincerà questa battaglia, ma una cosa è certa: il sistema democratico italiano non sarà più lo stesso. È storia che si scrive sotto i nostri occhi. E non sarà un pranzo di gala…