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Lo sapete che potete rifiutare qualsiasi cura, trattamento o diagnosi? Certo, se siete maggiorenni e in grado di capire e di esprimere le vostre volontà, se non siete un pericolo per gli altri e se c’è il tempo di esprimere e di ascoltare.
È così dalla Costituzione, o almeno dovrebbe essere perché poi il passaggio dal paternalismo alla possibilità di decidere non è stato facile – non è mai facile quando ci sono il potere e la convinzione di sapere qual è il bene altrui – e siamo ancora con un piede affondato nella palude del passato.
Però negli anni le norme e le abitudini si sono adattate, anche se faticosamente. E l’ultima legge che riguarda la nostra libertà compie 5 anni. Si chiama “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” ed è entrata in vigore il 31 gennaio 2018. È una legge che ha fatto il riassunto delle puntate precedenti, niente di rivoluzionario, ma quel riassunto lo ha fatto bene e ha ribadito alcuni principi ovvi ma trascurati e ne ha esplicitati altri meno ovvi (ci potevamo arrivare ma è sempre meglio rischiare di essere ripetitivi). È anche un augurio che il consenso informato non sia solo una procedura burocratica ma davvero un tempo dedicato alla premessa necessaria per esercitare la nostra libertà: avere le informazioni e capirle.
A questo proposito è importante che nella legge ci sia scritto che “il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura”. O che si ribadisca che sono libera anche di interrompere un trattamento, mica solo nella fase iniziale per poi infilarmi in una trappola (ve lo ricordate Piergiorgio Welby, con un respiratore che era diventato una infernale condanna perché la vita è sacra?). O ancora che ho diritto di non provare dolore. E poi che le mie volontà di oggi possono essere valide anche per il futuro, in un momento in cui potrei non essere più in grado di esprimerle, ecco perché disposizioni anticipate. Posso quindi oggi scrivere che cosa voglio e che cosa non voglio (trattamenti che considero invadenti o cui non voglio essere sottoposta perché sono affari miei, nutrizione e idratazione artificiali, accertamenti diagnostici) e questa mia volontà avrà valore se e quando non sarò più autocosciente e capace di avere una preferenza. È un modo per prolungare il mio consenso informato, quel consenso che firmiamo per un intervento o per un trattamento e che in genere copre alcune ore. Insomma quella capacità di esprimere le nostre volontà sulla nostra salute viene proiettata nel futuro, proprio come facciamo con i nostri beni in un testamento (ecco perché le DAT si chiamano anche testamento biologico).
Naturalmente possiamo cambiare idea in qualsiasi momento, modificare delle disposizioni specifiche o buttare l’intero testamento biologico perché non vogliamo decidere. Come ogni libertà, possiamo esercitarla oppure no.
Fin qui tutto bene. Però mancano almeno due cose per fare di una buona legge sulla carta una buona legge davvero: una campagna istituzionale informativa e i dati completi, aggiornati e in formato aperto di cosa è successo in questi 5 anni. A entrambe le cose ha provato e prova a rimediare l’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica – senza che questo ovviamente diminuisca la responsabilità politica del disinteresse e della sciatteria. In particolare in questa settimana il numero bianco (06 99313409), dedicato alle cure palliative, all’eutanasia e alla interruzione dei trattamenti, concentrerà gli sforzi proprio nello spiegare a cosa servono le disposizioni anticipate e a rispondere alle domande. In questi mesi, poi, l’Associazione, alcuni volontari e le cellule locali hanno mandato ai comuni una richiesta di accesso agli atti per sapere quante direttive anticipate sono state depositate e quante sono state inviate alla banca dati nazionale (qui i dati sono visibili e qui si può chiedere un modello di DAT da compilare).
Quello che sappiamo con certezza – per quanto con un po’ di approssimazione – è che sono pochissime le persone ad aver compilato un testamento biologico in questi anni. Ovviamente non possiamo inferire che è perché non sanno di poterlo fare, magari non vogliono, sono convinte che non ne avranno mai bisogno o che pensare alle malattie e alla morte porti sfortuna. Oppure hanno provato a mandare la videoregistrazione, seguendo le specifiche tecniche indicate nel sito del Ministero della salute. Tra queste ci sono le seguenti indicazioni: “Il file video deve essere codificato utilizzando uno dei seguenti codec: H264/H265; la lunghezza minima del lato corto del frame deve essere maggiore o uguale ai 240 pixels; la lunghezza massima del lato lungo del frame non deve eccedere gli 800 pixels; il rapporto di aspetto (RATIO) del frame video deve essere compreso tra 4/3 e 21/9; il bitrate del file video deve essere compreso tra i 100 kbps e i 1000 kbps”. Ci siete riusciti?