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La sede della Consulta
Martedì, vista la mala parata, la premier ha riconvertito in extremis la strategia e ordinato di passare alla scheda bianca nella votazione per il giudice costituzionale vacante da novembre invece di tentare l'impossibile elezione del suo candidato Francesco Saverio Marini. Ieri la maggioranza ha fatto lo stesso: ha disertato la Commissione di vigilanza Rai per non mettere in ancor maggiore evidenza l'impossibilità di eleggere il nuovo presidente del Cda Rai senza un accordo con l'opposizione, o almeno con parte di essa. Le due sconfitte rinviano allo stesso nodo irrisolto e la seconda aiuta a capire quale fosse la posta in gioco nella battaglia persa sull'elezione di Marini.
Quella di due giorni fa era l'ottava votazione sul seggio vacante della Consulta. Il quorum è alto, persino più alto di quello necessario per eleggere il presidente della Repubblica a partire dalla quarta votazione. Per i giudici costituzionali anche quando il quorum dopo le prime votazioni si abbassa occorrono i tre quinti delle Camere. Sono 363 voti e la maggioranza non li ha. Per questo sino all'ultimo era dato per scontato che la votazione sarebbe andata a vuota in vista di una trattativa complessiva con l'opposizione in dicembre, quando i giudici da eleggere saranno diventati quattro. Invece Giorgia ha provato a forzare. La vicenda è nota: i messaggi dei capigruppo che ordinavano la mobilitazione generale, con tanto di missioni sospesi, e che una manina interna alla maggioranza ha fatto pervenire al Fatto, scoprendo così il gioco della premier che la ha presa tanto male da parlare di ' infamia'.
E' evidente che la presidente contava sul segreto (mossa ingenua essendo quasi impossibile mantenere i segreti per più di qualche ora in Parlamento) per tentare un blitz a sorpresa. E' altrettanto evidente che per azzardare il colpo di mano doveva ritenere di avere a disposizione qualche voto dell'opposizione, nel segreto dell'urna. I sospetti convergono unanimi sul M5S, sia perché non è nuovo a manovre di scambio con la maggiora sia perché gli atri papabili sembrano improbabili: Renzi è troppo impegnato a cercare di rientrare nella maggioranza per bruciarsi così e quanto a Calenda una manovra
del genere è quanto di più distante dal suo modus operandi. Scoperta la manovra la contromossa era ovvia: la segretaria del Pd ha chiesto a tutti di non partecipare al voto rendendo così impossibile offrire un appoggio alla maggioranza restando al coperto. Il quesito è perché la premier abbia deciso di imbarcarsi in un'impresa dall'esito comunque così incerto. La risposta è quasi ovvia: per dimostrare di poter fare a meno del dialogo e delle trattative con l'opposizione anche quando i numeri non la supportano e quando, come nei casi della Consulta e del cda Rai, in ballo ci sono istituti di garanzia. Quelli cioè in cui il dialogo tra la maggioranza e l'opposizione di turno dovrebbe essere fisiologico e imprescindibile.
La premier ha provato a forzare ed è andata a sbattere. La sconfitta sulla Consulta ha reso impossibile vagheggiare un qualche accordo sottobanco anche sulla Rai: di qui la mossa senza precedenti di ieri, con la maggioranza che diserta la Vigilanza al momento del voto sul presidente del Cda da lei stessa proposto. Sin qui i fatti ma la vicenda richiede qualche riflessione in più. E' evidente l'insofferenza della premier alle esigenze del dialogo e della trattativa, riflesso di una concezione della democrazia molto più decisionista e anzi dirigista di quella tratteggiata dalla Costituzione. E' anche vero che l'opposizione fa il possibile per spingerla su quella via, convinta di minare così la sua popolarità e il suo consenso.
La sua disponibilità al dialogo è solo apparente ed è facile immaginare l'impatto di un simile comportamento su un carattere sospettoso come quello di Giorgia Meloni. Il risultato complessivo è che da un lato la premier ha lasciato vacante per quasi un anno il seggio vacante della Consulta in attesa di poter trattare in dicembre sull'intero pacchetto di giudici da eleggere, provocando così durissime critiche dell'opposizione ma anche del capo dello Stato.
Dall'altro l'opposizione stessa esercita quando può il suo potere di veto, comprensibilmente ma con il risultato di paralizzare ulteriormente il funzionamento degli istituti di garanzia. Un labirinto dal quale sarà impossibile uscire sino a quando i poli principali non si decideranno a uscire da una logica di mancato riconoscimento reciproco che dalla fine della Prima Repubblica è tra le principali pietre al collo dell'intero Paese.