La Corte costituzionale nell’ordinanza 207/ 2018, nella sentenza 42/ 2019 e ora nella sentenza n. 135, preceduta dal Comunicato del 18 luglio 2024, raccomanda la necessità di un intervento del legislatore che possa riempire i “vuoti” inevitabili presenti nella regolamentazione delle condizioni procedurali fissate dalla sentenza n. 242/ 2019 e garantire le persone, evitando pressioni sociali indirette che possono indurre i più fragili e vulnerabili a farsi da parte. Inoltre, ribadisce che “resta naturalmente in pregiudicata la necessità di un attento accertamento, da parte del “giudice penale”, di tutti i requisiti del reato compreso l’elemento soggettivo (paragrafo 9)”.

Siamo dunque in una situazione che è possibile definire incerta, tra la più volte invocata legislazione e la giurisprudenza. La società è portata a domandarsi quali siano gli interventi a cui fare ricorso: leggi nella forma di regole generali imperative o invece una legislazione mite di garanzia che indichi i principi generali, non negoziabili, garantiti dalla Costituzione integrata dall’intervento del giudice nella forma equitativa delle decisioni argomentate caso per caso. Tanto più che nella fattispecie dei trattamenti di sostegno vitale, come in altre situazioni della sentenza, siamo di fronte a pazienti che presentano molteplici situazioni cliniche.

Nell’arco di questi anni l’aiuto al suicidio medicalizzato non si è potuto avvalere di una legislazione e pertanto è stato inevitabile l’intervento giurisprudenziale nei diversi casi critici. Tutto ciò non è un’eccezione nel nostro Paese. È frequente il richiamo ad un intervento giurisprudenziale in sostituzione di regole legislative. I tribunali, la Corte di Cassazione, la Corte Costituzionale si sono dovuti pronunciare più volte su problemi sollevati dalle biotecnologie in questioni di inizio e di fine vita, di PMA, di contratti di maternità, esercitando il loro compito istituzionale di supplire alle condizioni di stallo e di difficoltà degli organi legislativi nell’affrontare problemi nuovi eticamente difficili per la società.

Così, a fronte dell’assenza di una specifica normativa che disciplini i possibili vuoti lasciati dalla Corte, si è ricaduti in un diritto giurisprudenziale, peraltro ritenuto in questo genere di vicende bioetiche da molti preferibile a quello legislativo. Si evidenzia come la legge nella sua struttura ordinaria si presenti come scelta definitiva tra valori, ideologie, interessi in conflitto con un sacrificio definitivo di alcuni a favore di altri. La sentenza, la decisione giudiziaria, di contro, non è mai

scelta definitiva, limitandosi a una fattispecie e non alla generalità dei casi ed è pur sempre suscettibili di mutamento, di ripensamento a favore della fattispecie soccombente. Tuttavia, va detto che gli interventi dei giudici nei cosiddetti casi difficili, fintanto che non si è avuto per alcuni di questi l’intervento del legislatore (consenso informato, rifiuto delle cure salvavita, testamento biologico, procreazione medicalmente assistita, sperimentazione sugli embrioni, donazione o commercio degli organi, ecce.) non sono riusciti a creare orientamenti sufficientemente certi in grado di risolvere in modo coerente conflitti tra il rispetto della persona e il progresso della scienza, tra gli interessi individuali (tutela della persona) e gli interessi collettivi (salute pubblica).

La regolamentazione di quello che è l’aiuto al suicidio medicalizzato risulterà così quale un insieme composito, fornito da parte di elementi conoscitivi fino ad un certo punto ordinati dalle disposizioni normative che lo qualificano e dall’altra da fattori valutativi.

Se così stanno le cose, appare altresì legittimo domandarsi se questa tecnica, che vuole in alcuni settori la duplicazione delle fonti di diritto ( legge e giurisprudenza), sia soddisfacente. In via molto generale si può ricordare che i risultati della tecnica sopramenzionata (duplicazione delle fonti di diritto) sono condizionati dalla qualità dell’amministrazione della giustizia e dall’onestà, professionalità e razionalità del giudice. E per ragione del giudice deve intendersi non l’impulso emotivo dell’etica del singolo magistrato né la volontà di interpretare o correggere l’ordinamento in forza di una tavola di valori marcatamente ideologica, bensì una ragione perfezionata con mezzi artificiali attraverso un attento studio, osservazione ed esperienza, una ragione che scaturisce da una condizione di civiltà politica e giuridica.

Non si dimentichi che la legge è primariamente promulgata per regolamentare la convivenza al di fuori dei tribunali. Al contrario il processo, con i suoi riti e con tutti gli elementi imponderabili che lo caratterizzano, non ultima oggi la intelligenza artificiale, può richiedere una soluzione particolare che non deve essere una regola, anche se gli operatori del settore se ne impadroniscono troppo rapidamente per discuterla come tale.