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Lo speronamento del Corvetto e la morte del giovane Ramy Elgaml sono un evento tragico che non dovrebbe dividere il paese nelle solite tifoserie che, purtroppo, sono scese in campo anche questa volta. Come a malincuore accade ogniqualvolta si discuta di violenze e morti in cui sono coinvolti appartenenti alle forze di polizia nell’esercizio dei loro doveri istituzionali (dagli studenti di Bologna alla stazione di Milano e tante altre volte).
Due punti, nel grigiore delle polemiche, si stagliano con assoluto nitore: il pacato invito del padre della vittima a evitare ogni violenza e la sua perdurante fiducia nelle indagini in corso; la costernazione del comandante provinciale dei Carabinieri di Milano e il suo cordoglio per la giovane vittima. Punto a capo. Per il resto ci sono un mucchio di cose di cui si potrebbe discutere senza spirito di parte.
Il fatto che siano state divulgate, prima, le riprese video e, poi, le conversazioni audio dei militari dell’Arma durante l’adrenalinico inseguimento dello scooter con a bordo i due ragazzi contraddice, a occhio e croce, alcune elementari regole che il legislatore ha invano tentato di imporre per evitare che sulla stampa (e peggio ancora in tv per il suo esponenziale impatto emotivo) fossero celebrati processi mediatici, alternativi rispetto a quello previsto dal codice di procedura penale.
Chiunque abbia fornito o autorizzato una tale divulgazione ha leso gravemente la presunzione di innocenza che assiste, guarda caso, anche i carabinieri coinvolti nelle indagini, consentendo illazioni, deduzioni e impressioni che le indagini richiederanno tempo per dipanare. Se qualcuno, così facendo, ha inteso inaugurare una stagione di trasparenza per mitigare ombre o sospetti alimentati nella pubblica opinione, sia chiaro che lo ha fatto a discapito di chi è correttamente investigato a causa del suo operare.
Una seconda questione, per così dire a cascata, deriva dal profondo turbamento che attraversa la gente nel sentire carabinieri – impegnati in un lungo e pericoloso inseguimento in piena notte – abbandonarsi all’orribile gergo usato e registrato durante l’inseguimento: «Vaffanculo, non è caduto!», «Chiudilo che cade», «Merda! Non è caduto!», «Sono caduti!», «...Bene». Qui la questione assume tutt’altro spessore e merita un discorso un po’ più articolato.
Tecnicamente quelle propalate sui media sono vere e proprie intercettazioni ambientali; frasi colte dagli apparati presenti sulle auto impegnate nell’inseguimento; nulla di illecito, anzi. A spanne, però, ci siamo capiti. Alla base del valore probatorio di queste captazioni, come di migliaia di altre, sta una sorta di antica antropologia che può efficacemente essere riassunta nella frase evangelica “ex ore tuo te iudico” (Lc 19, 22), ossia “ti giudico sulla base delle tue parole”. Criterio che può andare bene dappertutto, ma che nelle aule di giustizia dovrebbe essere sempre manipolato con molta cura. Accade di rado. Le frasi pronunciate, le parole concitate, gli scatti d’ira, le imprecazioni, persino i più truci propositi si materializzano negli atti d’indagine – talvolta anche sapientemente “sistemati” – e assumono connotati oggettivi, prendono le forme di verità incontrovertibili. Le parole sono pietre (Carlo Levi) e nelle aule di giustizia diventano macigni irremovibili, montagne non scalabili. Inchiodano chi le ha pronunciate alla propria, irreversibile responsabilità.
Centinaia di condanne trovano la propria giustificazione nella captazione durata mesi, se non anni, di frasi, dialoghi, parole; talvolta senza che vi sia un riscontro reale a ciò che si dice o si narra. Una questione che ha arrovellato la dottrina per qualche decennio e che, lentamente, sta trovando spazio nella giurisprudenza più accorta e misurata. Se “tutti i Cretesi mentono”, perché tutti quelli che conversano al telefono o colloquiano di persona dovrebbero dire la verità?
Un terzo punto. La miscellanea tra inosservanza delle regole sulla pubblicazione degli atti d’indagine e la natura particolarmente pervasiva e persuasiva di quegli atti (video e audio) consegna alla pubblica opinione un quadro di situazione difficile da dipanare senza la necessaria pacatezza. Sia chiaro, in molti pensano: «Volevano farli cadere a qualunque costo e ci sono riusciti»; quindi pare corretta anche la ventilata ipotesi di contestare l’omicidio volontario ai carabinieri coinvolti. Il che, sia consentito, al momento è una mera illazione. Una cosa sono i dialoghi adrenalinici, le frasi intrise di rabbia, le incitazioni cameratesche consumate nei lunghi minuti della corsa sfrenata, altro è che nel momento preciso in cui l’impatto è avvenuto chi era a bordo dell’auto abbia voluto (o abbia accettato il rischio di) uccidere i due inseguiti.
Questa banale osservazione, che certo non sfugge a magistrati esperti come quelli milanesi, segna una cesura irreversibile nel racconto che da giorni viene fatto di quella terribile sciagura. Se non si tengono separate le parole dai comportamenti, la rabbia dai fatti, il rischio è che si confezionino più orribili argomenti “giustificazionisti” («se l’è cercata», «fatti loro», «così imparano» e via seguitando) che offendono la dignità dei ragazzi (sono tutti ragazzi) che sono rimasti coinvolti in questa tragedia.
Le parole restano parole, i fatti sono i fatti, adoperare le prime come scorciatoia per accertare i secondi sarà pure facile, ma l’era che ci attende, anche con i suoi immani rischi di manipolazione visiva e locutoria, dovrebbe consegnare una lezione diversa.