Diciamocelo chiaro: la lettera che il pm di Catania Fabio Regolo ha inviato ai legali delle persone che aveva indagato per annunciare loro che avrebbe chiesto l’archiviazione, è una rarità. Una lezione di diritto, una dimostrazione di come dovrebbe funzionare la giustizia in un paese normale, dove le toghe non si sentono soldati dell’accusa ma servitori della legge. Una lettera che ricorda a noi tutti, in modo limpido ma anche “inusuale”, che il ruolo di un pubblico ministero non è vincere, ma avvicinarsi alla verità.

Il dottor Regolo scrive, con una sincerità quasi imbarazzante, che il pm deve ragionare come un giudice. Non un avvocato d’accusa, non un pubblico flagellatore, ma un magistrato che guarda gli elementi di fatto «con prudenza del giudizio» e con la sacrosanta apertura al dubbio sull’innocenza dell’indagato. Citare l’articolo 358 del codice di procedura penale, per dire che un pm è obbligato a cercare anche le prove a discolpa, oggi sembra quasi una provocazione, visto che quel principio è diventato un relitto teorico.

Tutto bello, tutto ideale. Ma questo esempio, per quanto nobile, non basta. Perché se è vero che Fabio Regolo ci ricorda come dovrebbe funzionare la giustizia delle Procure, è vero pure che siamo di fronte a un comportamento decisamente insolito, e per questo non possiamo permetterci di lasciare che la giustizia sia nelle mani di pochi magistrati illuminati mentre il resto del sistema resta ostaggio di arbitrii e protagonismi.

Perché qui sta il nodo: il pm Regolo è l’eccezione, non la regola. Ci sono altri mille pm che non ragionano affatto come giudici, ma come avvocati d’accusa, armati di un potere di fatto senza contrappesi. Un potere che può decidere il destino di un cittadino, di un’impresa, di una carriera politica con una semplice informazione di garanzia, che garanzia non è mai. È un potere che galleggia in una zona grigia, dove i rapporti di prossimità con i giudici spesso coincidono, dove l’indipendenza sbandierata si mescola a un’influenza opaca.

La lettera di Regolo è un esercizio di trasparenza e onestà, ma ci porta a una domanda inevitabile: quanto possiamo fidarci di chi detiene un potere così arbitrario? Non possiamo sperare che la giustizia funzioni sulla base della buona fede dei singoli magistrati. Non possiamo affidarci a casi felici, come se la giustizia fosse una graziosa concessione, come se fosse una sorta di costituzione monarchica octroyée, concessa: ovvero valida finché qualcuno non decide di revocarla o semplicemente ignorarla.

E attenzione a chi utilizza questa lettera per dire: “Vedete? Il sistema regge, non servono riforme e la separazione delle carriere è un inutile affronto alla magistratura”. Non è vero. Qui non si tratta di assoggettare i magistrati al potere politico, qui si tratta di liberare il sistema giudiziario da un’ambiguità che non possiamo più permetterci.

La nostra Costituzione, invocata sempre a sproposito, parla chiaro e stabilisce equilibri precisi. Se vogliamo che la giustizia sia davvero giusta, dobbiamo smetterla di sperare nei casi felici e iniziare a costruire regole più chiare e solide. Perché una giustizia che si regge sulla buona fede è una giustizia che può crollare in ogni momento. E quando crolla, sotto le macerie restano i cittadini.