“Ce lo chiedono le femministe!”. Quante volte lo abbiamo sentito dire? Spesso come risultato dell’insolito matrimonio tra un pezzo dei movimenti delle donne con il mondo cattolico e conservatore, che in Italia si è consumato almeno due volte: in occasione del dibattito feroce attorno al ddl Zan (affondato e sepolto) e poi con la maternità surrogata, che il nostro Parlamento ha reso un reato universale.

Due questioni per le quali la destra ha “ingaggiato” volentieri le cosiddette femministe “critiche del genere”, che si possono riconoscere facilmente sotto l’insegna della sua paladina mondiale, la scrittrice inglese di Harry Potter, JK Rowling. È lei ad aver guidato anche la lunga battaglia legale del gruppo Women For Scotland contro il governo scozzese, che si è conclusa mercoledì con il verdetto della Corte Suprema del Regno Unito sulla definizione legale di donna. Che per i giudici non può basarsi sul genere acquisito, ma sul sesso biologico. Questo vuol dire che alle persone transgender, nell’ambito della normativa britannica sulle pari opportunità (l’Equality Act del 2010), non possono essere riconosciute le stesse tutele e gli stessi spazi previsti per chi è donna dalla nascita. Con tutte le prerogative legate esclusivamente al corpo femminile.

Una questione niente affatto banale, che infiamma l’opinione pubblica inglese e soprattutto spacca al suo interno il movimento femminista, tra chi difende i diritti della comunità Lgbt+ e chi rivendica i diritti delle donne per come bisognerebbe intenderle secondo il “senso comune”. In ballo c’è l’acceso agli spazi pubblici e politici, le quote rosa, l’accesso alle competizioni sportive per le atlete trans e persino l’accesso agli spogliatoi e ai bagni femminili. Ma soprattutto, ed è questo ad accomunare tutte le questioni politiche che abbiamo citato, al centro del dibattito c’è il controllo riproduttivo e la maternità. Di cui le femministe cercano di “disfarsi” o di riappropriarsi. Ma in che senso, e in che modo? Ci arriviamo.

All’indomani della sentenza inglese le opposte “tifoserie” sono ben schierate. E anche se gli stessi giudici ci hanno avvertito sul rischio che la loro decisione venisse letta come «un trionfo di uno o più gruppi della nostra società alle spese di un altro», nel Regno Unito abbiamo visto alcune femministe stappare champagne fuori dall’aula. L’Italia non è da meno. C’è chi plaude alla decisione dei giudici, a partire dalla ministra della Famiglia Eugenia Roccella, per la quale quel verdetto «è un atto di giustizia». «Giustizia verso le battaglie delle donne», che hanno «fatto una grande fatica, un incredibile percorso verso la libertà e poi si sono trovate scavalcate da uomini che si sentono donne. Io ho sempre detto che questa è una nuova forma di patriarcato», dice la ministra.

Ma c’è anche chi è molto preoccupato per il destino della comunità Lgbtq+, i cui diritti rischiano di essere seriamente compressi. In che modo, si chiede qualcuno, le persone transgender ci “ruberebbero” o minaccerebbero gli spazi «sicuri» che le donne hanno conquistato a fatica? Per capirci qualcosa di più interroghiamo l’anima del femminismo anni Settanta: Lea Melandri. Per la quale «il determinismo biologico, fondamento dell’ideologia patriarcale che ha confinato la donna nel ruolo “naturale” di madre, non ha mai smesso di creare divisioni anche all’interno del femminismo. A non essere stato indagato quanto meritava - dice - è il rapporto tra sesso e genere». Uno dei dualismi della cultura patriarcale, spiega Melandri, che ci riporta nello spazio del dato biologico. Nella dimensione del corpo, il corpo che fa figli, che ha le mestruazioni. Dentro costruzioni rigide e binarie nelle quali «le vite reali non possono riconoscersi».

Alla base di tutto c’è la misoginia, dice Melandri. «Ricadute della misoginia», che si riflettono sulle esperienze dolorose di chi si trova colpito ancora una volta «dall’esito omolesbotransfobico» della sentenza inglese, che potrebbe escludere le persone trans anche da strutture come le case rifugio. Come ci siamo arrivati? E cosa c’è sotto, al fondo? «L’attaccamento al materno – dice Melandri – il potere della maternità. Le donne, confinate in questo ruolo, hanno cercato e cercano ancora di strappare da questa identità, da questo ruolo un potere. Ecco perché bisogna ripensare, e non cancellare, la maternità. Come fanno le giovani generazioni del femminismo che cercano di sottrarla alla collocazione che gli si è attribuita dentro l’ordine patriarcale».

A Londra se ne è parlato nell’ambito del dibattito sul Gender Recognition Act, ovvero la legge approvata nel 2004 in risposta alle sentenze della Cedu contro il Regno Unito, che ha disciplinato la modifica del sesso sui documenti legali per chi ha una diagnosi documentata di disforia di genere. È in quel contesto che si è diffuso anche il termine “Terf” (trans-exclusionary radical feminist), definizione che per altro le femministe “critiche del genere” rifiutano, come rifiutano le costruzioni culturali che vorrebbero negare loro un’identità costruita sulla condivisione del dato biologico. La maternità, ancora una volta.