Tanto vale confessarlo subito: chi scrive è convinto che sulla vicenda della nave Open Arms l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini agì ignorando i più elementari valori del diritto internazionale. Lasciare in mare 147 persone - a bordo c’erano anche 32 minori - ha ben poco a che vedere con la difesa della Patria e, ancora meno, col cuore immacolato di Maria, il cui santino era regolarmente esposto e sbandierato - al limite del sacrilego - nelle piazze elettorali leghiste.

Ma la questione non può esaurirsi qui, non può ridursi a uno scontro tra chi è favorevole all’accoglienza dei migranti e chi è contrario. O, peggio, tra i fan di Salvini e i suoi detrattori. Insomma, non possiamo far finta di non vedere che, con la sua requisitoria, la procura di Palermo ha piazzato un macigno nel cuore stesso della nostra democrazia. Processare un ministro della Repubblica per una decisione politica è un precedente assai pericoloso. E condannarlo sarebbe addirittura pericolosissimo.

Dobbiamo essere consapevoli che in questa vicenda c’è in gioco la tenuta stessa del nostro sistema democratico e quell'equilibrio tra poteri che è alla base delle democrazie moderne. E non v’è dubbio che da Palermo arrivi un messaggio “destabilizzante”: qualsiasi atto politico - dice in modo implicito quella requisitoria - può essere subordinato al potere giudiziario che vaglia e autorizza le decisioni di un governo e di un ministro della Repubblica.

Forse sarebbe utile rispolverare le vecchie lezioni di filosofia politica di Lucio Colletti per capire di che stiamo parlando, lì dove spiega in maniera limpidissima che il cuore della democrazia è rappresentato dal sistema di argini che tutela e protegge i diversi poteri dello Stato. O, più semplicemente, potremmo interpellare i classici del pensiero liberale; quel Montesquieu, per esempio, che nello Spirito delle Leggi avvisa: “Se (il potere giudiziario) fosse unito con il potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza di un oppressore”. Chiaro, no?