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IMAGOECONOMICA
La Cassazione ha accolto il ricorso degli avvocati di Giovanni Riina contro la proroga del regime 41-bis, giudicando “meramente apparente” la motivazione fornita dal Tribunale di Sorveglianza di Roma. Semplificando: i giudici avevano giustificato il carcere duro con il solito mantra del rischio di collegamenti con la mafia corleonese e della “sovraordinazione” di Riina Jr all’interno dell’organizzazione. La Suprema Corte, però, ha detto che quelle motivazioni non bastano, che non c’è un “percorso argomentativo effettivo e concreto”. In altre parole: rifate i compiti, questa volta meglio.
E così esplode la polemica, perché qui non si parla di un detenuto qualsiasi. Si parla di quel cognome. Riina. Non importa cosa faccia, cosa dica, o cosa pensi. È il figlio del Capo dei Capi, il simbolo vivente di un passato che fa ancora tremare lo Stato. Ma proprio per questo è necessario un punto fermo: non possiamo sacrificare i principi costituzionali sull’altare di un cognome, per quanto ingombrante.
Il 41-bis è nato come misura emergenziale, un rimedio temporaneo per affrontare il terremoto delle stragi di mafia degli anni ’90. Doveva essere una risposta limitata nel tempo, una mossa d’urgenza. Ma in Italia nulla è più definitivo di ciò che si presenta come provvisorio. Così il carcere duro è diventato un dogma, una regola automatica per chiunque abbia a che fare con l’etichetta di “mafioso”, spesso senza un’analisi reale della pericolosità attuale.
Giovanni Riina è stato arrestato nel 1996 e sottoposto al 41-bis nel 2002. Ventotto anni di carcere, gran parte dei quali trascorsi in isolamento, con una quotidianità ridotta all’osso e priva di speranza. E no, non si tratta di garantismo a buon mercato. È semplicemente ricordare che la Costituzione italiana, quella che tutti amano citare quando fa comodo, dice che la pena deve tendere alla rieducazione e non può mai essere contraria al senso di umanità. E il 41-bis, per sua natura, è l’esatto opposto: non rieduca, ma distrugge, annichilisce, è una sorta di esperimento: non un luogo per custodire ma un laboratorio di disumanità istituzionalizzata.
Perché Giovanni Riina è ancora al 41-bis? È lì (soprattutto) perché il suo cognome pesa più di ogni altra cosa. Arrestato a vent’anni, è stato condannato all’ergastolo per pluriomicidio e associazione mafiosa. La sua “formazione” è stata guidata dallo zio Leoluca Bagarella, un uomo spietato che lo ha trascinato in una scia di sangue. Ma Giovanni Riina non è più quel ventenne, non è più quel giovane simbolo della mafia corleonese. È un uomo di cinquant’anni, prigioniero non solo di un regime che lo annichilisce, ma anche di un cognome che lo condanna a una punizione eterna.
Si teme che possa riallacciare i contatti con la mafia di Corleone, che possa tornare a comandare. Ma davvero crediamo che quella mafia esista ancora? O stiamo combattendo i fantasmi di un passato che abbiamo già sconfitto? Il problema non è Giovanni Riina. Il problema è che usiamo il suo nome come pretesto per giustificare un sistema che viola i nostri stessi principi.
Chiara Colosimo, presidente della Commissione parlamentare Antimafia, ha proposto di aprire un’indagine sul 41-bis. Sarebbe l’occasione perfetta per chiudere una pagina che puzza di emergenza permanente. Perché il 41-bis, così com’è, non è una misura di giustizia. È una macchia sul nostro ordinamento, una ferita che continua a sanguinare.
Non si tratta di fare sconti a Giovanni Riina o a chiunque altro. Si tratta di riaffermare che lo Stato non può essere disumano. E se lasciamo che un Riina basti a giustificare l’eccezione, allora abbiamo già perso.