Fa quasi tenerezza, il giorno dopo la sentenza di Cassazione che ha sancito il fallimento dell’inchiesta sul sindaco Domenico Lucano, leggere i titoli trionfanti dei giornali di destra - Tempo, Libero e Giornale - che provano a convincere il pubblico di una condanna al “modello Riace”. Ovvero l’esatto contrario di ciò che è successo, dato che la sentenza d’appello prima e quella di Cassazione dopo hanno cestinato tutte le accuse dopo una condanna monstre a 13 anni e due mesi in primo grado.

Non ci fu un’associazione a delinquere, non ci fu truffa, non ci fu nulla. Solo un falso su una determina - peraltro senza conseguenze, non essendo stato speso un soldo e anzi considerata, nell’ipotesi accusatoria, prodromica alla truffa mai avvenuta - sulle oltre 60 contestate e per le quali pure il sostituto procuratore generale della Cassazione ha chiesto il rigetto del ricorso. Ma nulla, il garantismo à la carte - e siamo generosi - non prevede l’analisi serena di una sentenza se dimostra l’accanimento giudiziario contro un esponente politico non gradito, in un processo che certifica solo una cosa: che per sei anni è stato imbastito un carrozzone inutile, sulla base di fonti di prova inutilizzabili.

Quest’ultimo aspetto potrebbe anche sembrare un assist a chi pretende, al di là dei fatti e delle evidenze, di attaccare su Lucano l’etichetta del colpevole: l’ha fatta franca, potrebbero dire i suoi hater mutuando una famosa espressione. E invece no, perché la Corte d’Appello di Reggio Calabria aveva sì dichiarato l’inutilizzabilità delle intercettazioni - fatte, cioè, al di fuori dei casi previsti dalla legge -, ma forse consapevole delle possibili polemiche ha anche effettuato una prova di resistenza - così si chiama -, per verificare se, comunque, il materiale raccolto consentiva di raggiungere ad una decisione di colpevolezza. Risposta: non c’era niente che consentisse di giudicare Lucano colpevole.

Anzi, le intercettazioni, se non mutilate, permettevano di apprezzare il contrario. Ovvero che quella del “Curdo” era una missione, piaccia o meno, finalizzata ad aiutare gli ultimi, i derelitti. Quelli che gli autori dei titoli in questione, in genere, preferiscono lasciare “a casa loro”, dove non si vive proprio benissimo. Mentre a Riace sì, vivevano benissimo. Nessuno, infatti, ha mai rubato loro un centesimo o condizioni di vita umane.

E però l’accusa imbastita era proprio questa: una truffa milionaria sull’accoglienza. Che non fosse vero era comprensibile sin da subito, ma ci sono voluti anni, la distruzione di un modello - che tanto è rinato e che Lucano paga con i suoi soldi da europarlamentare, oggi - e la criminalizzazione dell’accoglienza prima di comprenderlo. Perché il modello Lucano proponeva un’alternativa semplice ai lager e ai respingimenti, l’idea di una rinascita possibile grazie proprio allo straniero, e figurarsi se poteva fare piacere a politiche che, invece, indipendentemente dal colore, stringevano accordi con chi ha il compito di non far superare a quella gente la linea immaginaria che in mare separa la vita dalla morte.

La condanna a Lucano è una cosa che capita a centinaia di sindaci quasi ogni giorno, di destra e di sinistra. In questo caso senza sperpero di risorse pubbliche. Basterebbe pensare a chi ha subito per questo misure cautelari - e ai soldi spesi inutilmente per un processo che non doveva nemmeno celebrarsi - a far indignare l’opinione pubblica. Invece no, è corsa a trovare la formula più convincente - ma del tutto falsa - per dire che il “modello Riace è stato condannato”.

Ci sarebbe da sorridere - in fondo è prova di frustrazione -, se non fosse che l’informazione plasma le coscienze (almeno una parte) e che questa non notizia rimarrà impressa lì, a sporcare l’immagine di un uomo che non ha rubato un centesimo. Forse, fallito il primo assalto, il tentativo è quello di impedire che quel modello, adesso risultato vincente, venga esportato in Europa, dove prova ad accreditarsi il modello contrapposto, quello dei cpr in Albania, quelli sì, allo stato attuale, risultati fallimentari.

Si potrebbe dire ancora molto, ma sarebbe un inutile accanimento terapeutico. Allora basta affidarsi alle parole di Andrea Daqua, difensore di Lucano, per riassumere il tutto: «È come trovare l’assicurazione scaduta a causa di un uomo accusato di omicidio e chiamarlo comunque assassino anche dopo l’assoluzione».