Il truce, disumano bollettino di guerra delle nostre carceri ci informa che il sessantaquattresimo suicida (un cittadino albanese detenuto a Biella) era stato da poco sottoposto a una visita psichiatrica che avrebbe escluso ogni rischio di suicidio.

Sia ben chiaro che ho ben presente il triste aneddoto di quel paziente che viene colto da fulminante infarto appena uscito dallo studio del suo cardiologo dal quale era stato controllato con scrupolo e trovato in ottimo stato. La scienza medica è tutt’altro che esatta e la psichiatria è forse quella che lo è meno. Ben mi guardo, quindi, dal soffermarmi sul caso concreto - i cui dettagli non conosco - per adombrare sospetti sulla condotta dello specialista che ha visitato quell’infelice.

Qui però parliamo di un fenomeno (i suicidi in carcere) con numeri, e statistiche, allarmanti che suggeriscono alcune considerazioni. Gli avvocati che si occupano in vario modo di esecuzione penale vivono questi casi in modo diretto e drammatico: hanno quindi una sorta di “termometro empirico” della situazione che, seppur lontano dalla analisi precisa di una statistica, fornisce indicazioni senz’altro utili a focalizzare alcuni problemi che troppo spesso, anche in queste settimane, rimangono sotto traccia.

La sensazione che qualcosa non funzioni anche nell’ambito delle consulenze medico-specialistiche sui detenuti è forte così come lo è quella (perché non dirlo!) di criticità nelle regole e nei procedimenti avanti i Tribunali di Sorveglianza. I numeri dei suicidi sono alti, troppo alti.

Il tasso annuale tra i 60 milioni di italiani è mediamente, negli ultimi anni, di circa 6,5 eventi ogni 100.000 abitanti. Nel solo primo semestre di questo terribile 2024 nelle carceri si sono registrati circa 60 suicidi cioè, tenendo conto di una popolazione carceraria di circa 60.000 (vado a spanne…), due ogni mille in ragione annua. Il paragone è spaventoso: l’incidenza suicidaria tra i detenuti è all’incirca 31 volte più alta rispetto a quella generale della popolazione. Un’enormità.

Si potrebbe dire: il detenuto vive una condizione di disagio particolare, di grave sconforto ed abbattimento che, almeno in parte, prescinde dalle condizioni carcerarie. Vero, ma sino ad un certo punto. A fronte di tale particolare fragilità soggettiva, va ricordato che il detenuto è (o dovrebbe essere) un soggetto più “sorvegliato” rispetto al comune cittadino attraverso una rete di operatori che dovrebbe intercettare per tempo il rischio suicidario. Un cittadino libero, ovviamente e per fortuna, non è seguito così da vicino. Un rischio 31 volte più alto non è quindi giustificabile per la generale condizione della privazione di libertà.

Ecco allora le doverose domande frutto di quel “termometro empirico” di cui parlavo: è possibile che in nemmeno uno dei troppi suicidi di questo scorcio d’anno sia stato rilevato un rischio concreto e grave, che gli specialisti intervenuti mai abbiano segnalato l’allarme?

Non voglio nemmeno pensare all’ipotesi che l’allarme sia stato lanciato e nessuno (Direzione della struttura, magistrato, Tribunale di Sorveglianza) vi abbia dato il dovuto seguito. Non si creda, poi, che il problema attiene solo alle indagini specialistiche di tipo psichiatrico\psicologico. Ancora quel “termometro empirico” ci dice che la febbre è alta anche su altro tipo di gravi patologie della popolazione carceraria: quanti i casi di persone detenute le cui condizioni di salute sono state – da parte ovviamente degli specialisti o dei medici legali incaricati - giudicate compatibili con la detenzione e che invece in brevissimo tempo sono evolute sino all’exitus nello sconforto di una cella?

E quante volte, da parte di chi ha proclamato l’antico giuramento di Ippocrate, è stato asseverato che le cure e terapie necessarie potevano essere tranquillamente somministrate dentro le nostre disastrate carceri ed invece quei pazienti, come era facile prevedere, ne rimanevano privi? È lecito il sospetto che il criterio guida sia quello di assecondare le aspettative dell’autorità che dispone l’accertamento specialistico, che affida l’incarico.

Credo sia venuto il momento di chiedersi, specie quando sono in campo i diritti più delicati (cioè, in tema di giustizia penale, quasi sempre…), quali siano gli effettivi criteri di selezione degli specialisti (leggasi periti o consulenti) incaricati dall’autorità giudiziaria e, in particolare, da quella della Sorveglianza.

È chiaro che, quando viene negata l’esistenza di una grave patologia o di un rischio suicidario, si preserva il diritto dello Stato di eseguire la pena legalmente comminata. È un risultato senz’altro ben visto dalla magistratura di sorveglianza la cui stella polare, alla luce dello stato delle nostre carceri e dell’eccesso di formalismo e rigore nel disporre l’accesso alle misure alternative, rimane proprio l’esecuzione “retributiva” della pena e molto, ma molto meno, la rieducazione e il reinserimento del reo.

Ecco, servirebbe proprio una statistica: quei consulenti o specialisti più funzionali al fine retributivo hanno, o meno, maggiori opportunità di ricevere mandati fiduciari? Non si pensi che il problema attiene soltanto agli specialisti incaricati in ambito di esecuzione penale. Qualcuno crede che un consulente di una Procura, che non abbia valorizzato dal punto di vista dell’indagine tecnica gli elementi d’accusa di un importante procedimento, abbia molte probabilità di ricevere altri incarichi? O, invece, viene scelto chi ha già in precedenza dato prova di percorrere imperterrito anche il più improbabile solco inquisitorio?

Forse anche quel perito del Giudice che abbia ripetutamente condiviso la ricostruzione tecnica delle difese rimarrà ai margini perché l’assecondamento della pretesa punitiva o di quella esecutiva di sovente costituisce un elemento fiduciario decisivo. Il discorso non va riferito solo ai medici perché riguarda tutti i professionisti chiamati a fornire elementi di conoscenza tecnica utile per l’accertamento di fatti o l’assunzione di decisione e, se proprio vogliamo camminare sulle più infide sabbie mobili, anche quegli avvocati che, ad esempio, sono impegnati in via esclusiva nella difesa dei collaboratori di giustizia i cui mandati, nei fatti, hanno origine fiduciaria da parte della Procura procedente.

Chi svolge una professione ordinistica regolamentata, l’iscritto in un albo professionale si trova, rispetto a queste tematiche, in una condizione molto particolare. Soprattutto il medico, ma anche l’avvocato, nell’esercizio proprio della loro professione sono legati da millenni a un giuramento che evoca un sistema di regole e di principi che non sempre coincidono con le norme, l’autorità e le finalità perseguite dallo Stato.

La nascita delle più classiche e autorevoli tra le professioni liberali (volutamente uso questa espressione che ha una dimensione storica, etica e ideale ben diversa da quella, tutto sommato economicista, di “libere professioni”) addirittura precede, di molti secoli, la nascita del concetto di Stato in senso moderno e ovviamente anche la sua forma di produzione normativa, quella legge verso cui continuiamo a esser mossi da troppa enfasi positivistica.

La loro “deontologia” rappresenta da tempi immemorabili un sistema di valori ben superiore a quello in cui da qualche tempo lo si vuole ridurre per cui, ad esempio, il medico dovrebbe incontrare significative limitazioni se chiamato alla cura di un “nemico” criminale al pari dell’avvocato che quel “nemico” debba difendere.

So bene che si tratta di questioni che non possono essere adeguatamente affrontate in poche righe sulle colonne di un giornale, seppur autorevole, ma un’ultima domanda mi sia concessa. “In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati”: è questo uno dei più solenni impegni del giuramento di Ippocrate. Costituisce ancora la bussola di orientamento del medico incaricato di un’indagine da parte dell’autorità giudiziaria? O, passando al versante dell’avvocatura, è sempre il diritto di difesa (nella sua accezione più generale di antitesi dialettica alle funzioni repressiva e punitiva dell’autorità statale) che connota l’attività dell’avvocato sistematicamente impegnato nella “difesa” dei collaboratori di giustizia?

Il tema ricorre immutato: il tormentato rapporto tra il medico e l’autorità, tra l’avvocato ed il potere costituito, tra l’esponente delle “professioni liberali” e lo Stato, tra il precipuo complesso di regole e principi deontologici e il sistema di regole e finalità dello Stato.

Come orientarci? Dovremmo ricordare più spesso che a noi, alle professioni liberali, spetta raccogliere la sfida di Antigone a Creonte e non già la rassegnazione di Ismene rispetto all’editto, fors’anche legittimo, del suo Re.