Ramy Elgaml, 19 anni, un nome che in queste ore pesa come un macigno. Ramy è morto a Milano Corvetto, un quartiere che sembra conoscere solo la durezza della “strada” e delle sirene. Un inseguimento, un’auto dei carabinieri, un ordine ignorato poi il tamponamento e lo schianto. È una tragedia, ma non solo.

È l’inizio di qualcosa di più grande, di un’onda lunga che non si ferma alla cronaca. Perché attorno al suo nome è esplosa una rabbia che ha preso la forma della piazza, dei cortei, degli striscioni che gridano “giustizia” e strizzano l’occhio alla vendetta.

A Roma, Bologna, Milano, perfino Brescia: la geografia del dissenso si allarga. A San Lorenzo, nel cuore della capitale, la protesta diventa scontro. Bombe carta, bottiglie, petardi artigianali. Otto poliziotti feriti, un’auto blindata devastata. La stazione dei carabinieri presa d’assalto come fosse un presidio nemico. L’eco di quegli anni in cui lo Stato e le piazze si guardavano negli occhi, divisi da uno scudo, è troppo forte per essere ignorato.

E così, mentre il sindaco Gualtieri parla di disordini “inaccettabili”, il ministro dell’Interno Piantedosi alza la voce: zone rosse, vigilanza rinforzata, rimpatri immediati. Prefetti e questori avranno il metro della loro efficacia: quante espulsioni riescono a firmare? Una misura forte, dicono. Ma forte per chi? Per i numeri da esibire in conferenza stampa o per un Paese che si ritrova, ancora una volta, con le sue ferite più profonde lacerate da una politica che ha in mente solo la repressione?

Sia chiaro: gli scontri sono gravi, gravissimi. Da mesi le forze dell’ordine sono sotto attacco. I numeri parlano chiaro: 273 agenti feriti nel 2023, un dato già in crescita quest’anno. Ma questo non può bastare a chiudere la discussione. Non possiamo permetterci di guardare alla rabbia delle piazze solo con lenti di repressione. Perché dietro un petardo lanciato, dietro un ordigno improvvisato, c’è una storia. Una generazione che sente di non avere voce, di non avere futuro. Soprattutto la voce dei figli dei migranti, trattati troppo spesso come italiani di serie b.

La trasgressione, per i giovani, è sempre stata una costante. È un diritto, forse perfino un dovere. È il modo in cui le nuove generazioni cercano di ridisegnare i confini di un mondo che sentono ostile, che non sentono proprio. Questo non vuol certo dire "giustificare" le violenze. Anzi, si è tanto più credibili quanto più si prendono le dovute distanze dall'uso della violenza come strumento politico. Eppure, è qui che si trova il nodo. Perché questa violenza, per quanto cieca e ingiustificabile, è il sintomo di un malessere che cova nel cuore delle nostre comunità, ben più sgretolate e sradicate di quanto siamo disposti ad ammettere. 

Ma se rispondiamo a questo malessere con il “pugno duro”, rischiamo di allargare la distanza di creare un “noi” e un “loro” che favorisce inevitabilmente le posizioni più aspre. Da un lato e dall’altro. Le zone rosse, i rimpatri, le cariche preventive: possono apparire come soluzioni immediate, ma la verità è che non scalfiscono il problema. Lo spostano.

Alimentano il senso di distanza tra i giovani e lo Stato, tra chi manifesta e chi tutela “l’ordine pubblico”. È la spirale di sempre, quella che negli anni di piombo abbiamo conosciuto e che ci ha lasciato ferite ancora aperte. Davvero non abbiamo imparato nulla? Il pugno duro è un slogan che funziona il tempo di una elezione. Serve una politica che abbia lo sguardo lungo e che voglia lenire le ferite e non aggravarle per incassare qualche manciata di voti in più.