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Finisce un anno difficile per le vicende della politica giudiziaria e ne inizia un altro altrettanto problematico e contraddittorio. L’impronta illiberale e securitaria impressa alle ultime riforme e le drammatiche condizioni delle carceri, con un numero di suicidi che mai era stato registrato in questo Paese, restano al centro della scena. E tuttavia, in attesa che con il nuovo anno riprendano i lavori parlamentari, alcuni proscioglimenti eccellenti hanno infiammato la polemica sulla riforma costituzionale della separazione delle carriere.
Si è così entrati nel vivo di una nuova fase conflittuale sul cui significato vale la pena svolgere qualche riflessione. Non vi è dubbio infatti che con l’avanzare del percorso riformatore il fronte che l’Anm ha inteso opporre è stato caratterizzato da una maggiore insofferenza e da una più marcata intransigenza ideologica. Ma il tema che val la pena di approfondire non è tanto questo. E’ infatti da tempo che la magistratura associata ha assunto una posizione di chiusura rifiutando ogni dialogo in merito a riforme che modifichino lo status quo. Come si legge nella mozione finale dell’ultimo Congresso, la “unitarietà delle carriere” costituisce un dato “ontologico” dell’Associazione stessa. Una sorta di “dogma” identitario che impedisce sul punto ogni possibile apertura di dialogo con la società civile e con la politica. Ne abbiamo preso atto da tempo. Vale, al contrario, la pena di spostare l’attenzione sul salto di qualità che Anm ha compiuto ultimamente in questa sua attività di contrasto.
L’Assemblea straordinaria ha infatti prodotto un articolato piano strategico che si colloca su di un livello di azione tipicamente politica. Un conto sono infatti le interlocuzioni con il governo o il Parlamento, ed una critica della magistratura sviluppata sul piano tecnico dalla sua componente sindacale o istituzionale, altro è l’intervento di una magistratura militante volto ad influenzare l’elettorato sul tema delle riforme.
Il mandato a sviluppare sofisticate ed efficaci tecniche di comunicazione ha infatti una diretta finalità di persuasione del pubblico degli elettori e non di confronto tecnico- giuridico con il legislatore. Ma l’acquisire consenso da parte degli elettori è una attività evidentemente politica. Gli scioperi e le manifestazioni indette in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, sono anch’esse attività inequivocabilmente politiche finalizzate espressamente a condizionare il voto referendario. Ma questa scelta sta a significare un passaggio piuttosto rilevante con riferimento agli equilibri extra- istituzionali del Paese.
Secondo l’art. 49 della nostra Costituzione, a “determinare la politica nazionale” concorrono i partiti politici. E lo fanno promuovendo il consenso popolare e condizionandone il voto. Quando
un sindacato di magistrati si pone su questo medesimo piano che non è più quello del contribuire al dibattito, ma di determinazione delle scelte degli elettori e lo fa con queste iniziative, un problema si pone. E, tuttavia, al di là di tale evidente distorsione e della conseguente alterazione del principio di divisione dei poteri, c’è da porsi anche un’altra domanda. Occorre chiedersi a chi spetterà, e come sarà possibile, una volta che esperti della comunicazione avranno elaborato gli anm- slogan per l’agit- prop referendaria, che uno o più scioperi politici avranno fermato i tribunali, che le inaugurazioni dell’anno giudiziario saranno state convertite in manifestazioni di propaganda, ricondurre ordini e poteri nell’ambito degli equilibri della legalità costituzionale. Dando uno sguardo alla storia contemporanea sappiamo che certe fratture extra- istituzionali sono pericolose. Ciò che sorprende è in proposito il fatto che all’interno della magistratura vi era chi aveva colto i rischi di un simile passaggio.La costituzione di un “Comitato” era apparsa a molti come una pericolosa conferma della politicizzazione della magistratura. Ma tali posizioni sono state travolte dalla spinta corporativa che fra i magistrati - nei momenti di crisi - finisce con l’essere la carta vincente. Restando al tema della riforma costituzionale, basti pensare alla questione del sorteggio: sono molto più vasti di quello che emerge i settori della magistratura stanchi della gestione correntizia e quindi favorevoli all’introduzione del sorteggio, ma anche in questo caso, evocare all’esterno i fantasmi dello “strappo” alla Costituzione e della sottomissione all’esecutivo significa evocare la necessità di un fronte difensivo comune, funziona come slogan unificante. Analoghe vicende stanno evidentemente attraversando il Csm, dove una parola d’ordine unificante ha trasversalmente opposto un fronte unico di resistenza, richiamando all’ordine tutte le voci dissenzienti e aperte al dialogo. Credo che tuttavia sfugga alla magistratura il fatto che questa chiusura ad ogni possibile cambiamento viene percepita sempre più dall’opinione pubblica come un arroccamento di potere ed un allontanamento da quella necessaria immagine fatta di autorevolezza, di equilibrio e di equidistanza che dovrebbe caratterizzare chi esercita il delicato compito del giudizio. Non sono i toni eccessivi, ma piuttosto scontati, o le espressioni epiche da finis terrae, o da ultima frontiera della democrazia che impressionano, ma quella distanza corporativa da casta autosufficiente che impedisce di valutare prudentemente il rischio che una simile radicalizzazione finisca con l’indebolire proprio quella indispensabile base di legittimazione che configura la stessa radice democratica di ogni magistratura.