In meno di cinque anni, la Procura di Tivoli ha pubblicato ben dodici linee guida dedicate al contrasto della violenza di genere. In un crescente climax repressivo, il più recente documento, incentrato sul delitto di maltrattamenti in famiglia, ha suscitato la preoccupata e ferma presa di posizione della locale Camera Penale nonché l’intervento dell’Osservatorio Doppio Binario di UCPI.

Il tema è tanto divisivo quanto delicato e impone una salda premessa che eviti ogni possibile fraintendimento. La violenza di genere rimane una drammatica questione culturale, sociale e criminologica del nostro Paese che deve essere affrontata soprattutto sul piano della prevenzione, ma il pericolo concreto, ben rappresentato dalla improvvida iniziativa della Procura di Tivoli, è che si trasformi nell’ennesima deriva demagogica e giustizialista dell’intero sistema penale.

I penalisti di Tivoli hanno ben chiare le conseguenze di un laboratorio giudiziario che partorisce soluzioni illiberali e che finisce per calpestare le più elementari garanzie processuali, a partire dalla presunzione d’innocenza. Proprio dalle loro osservazioni critiche, che si condividono integralmente, occorre prendere le mosse per alcune ulteriori considerazioni.

Le linee guida non sono altro che un vademecum, scritto dal pubblico ministero per il giudice, su come giudicare i maltrattamenti in famiglia. L’apparente ingenuità denota un’allarmante insensibilità per il rispetto della distinzione fra le funzioni d’accusa e di decisione. La tanto decantata separazione funzionale nel processo, che viene sempre invocata per opporsi alla separazione ordinamentale delle carriere, è ancora ben lontana dall’essere patrimonio comune della magistratura che, al suo interno, continua ad accettare benevolmente la confusione dei ruoli processuali.

Se davvero la separazione delle funzioni fosse un valore condiviso e sedimentato, la prima ad opporsi a queste iniziative dovrebbe essere proprio ANM, a tutela dell’indipendenza interna dei giudici, ma così non è perché, all’evidenza, l’ordine unitario fa premio anche sulla sempiterna figura dell’accusatore giudice. Sempre in tema di metodo, il “diritto protocollare”, composto da fonti eterogenee e spurie che vanno dalle linee guida, alle direttive, ai protocolli, per finire con accordi e intese varie, testimonia un intollerabile localismo giudiziario in cui ogni ufficio detta regole particolari, autoprodotte e spesso eccezionali rispetto a quelle legali, che sfiorano l’anarchia giudiziaria, nonostante il sistema

penale sia ancora formalmente governato dal principio di legalità. Come queste consuetudini possano proliferare indisturbate rimane un mistero al quale bisognerebbe dedicare maggiore attenzione, soprattutto da parte degli organi di governo della magistratura (in primis, CSM). Non si possono ignorare gli effetti deteriori della formalizzazione di prassi locali in termini di disomogeneità dell’applicazione della legge penale e processuale sul territorio nazionale. Il particolarismo giuridico del diritto protocollare è solo il dato esteriore che fa il pari con i contenuti a dir poco eterodossi delle linee guida in questione, solo apparentemente ispirate a una giurisprudenza di legittimità che si colloca di per sé abbondantemente al di fuori del perimetro della tassatività e determinatezza della fattispecie di cui all’art. 572 c. p. Ma è sul piano processuale che si coglie nitidamente la cifra autoritaria di una ricostruzione contra legem, ispirata a una dichiarata presunzione di colpevolezza e allo sfavor rei di un processo d’eccezione piegato a strumento di difesa sociale e di contrasto al fenomeno criminologico della violenza di genere.

Il pubblico ministero che si erge a legislatore dimentica non solo che non esistono reati di genere, pena la violazione del principio costituzionale d’uguaglianza, ma che non esistono nemmeno presunti colpevoli in ragione della esecrabilità del fatto oggetto di accertamento. Ci sono status processuali che non possono essere stravolti da una ricostruzione vittimo centrica. La vittima è uno status sostanziale, come quello del colpevole, che può trovare riconoscimento solo dopo la condanna irrevocabile, ma mai nel corso del processo quando la vittima, logicamente e giuridicamente, deve presumersi non tale o comunque non vittima della condotta dell’imputato. È il portato della presunzione d’innocenza e della civiltà del processo, come la distinzione fra status sostanziali e processuali che si vorrebbe cancellare sull’altare di un furore punitivo che asseconda la sete giustizialista dell’opinione pubblica.

Due esempi tratti, a caso, dal documento di Tivoli: il principio di presunzione di veridicità del narrato della persona offesa e la scriminante, quantomeno putativa, dello stato di necessità nel caso di falsa testimonianza resa contro l’imputato, una specie di salvacondotto per ogni denuncia calunniosa. Sono principi degni del Malleus Maleficarum, pensati per reprimere la nuova eresia di chi ancora crede nella presunzione d’innocenza.