Nella vicenda giudiziaria di Giovanni Toti si è toccato il fondo dell’intrusività delle procure e della viltà della politica,con il risultato di portare al voto anticipato per la presidenza e il Consiglio regionale della Liguria, privando l’indagato della presunzione di innocenza e dell’accertamento delle sue eventuali responsabilità da parte di un giudice terzo, il quale in una eventuale sentenza di condanna avrebbe potuto inserire la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, un obiettivo che in pratica è stato adottato nella fase preliminare delle indagini attraverso arresti domiciliari che si sono rivelati un sequestro di persona ed un impedimento all’esercizio di funzioni istituzionali su mandato popolare. Mettiamo in fila le questioni controverse.

La prima è stata sollevata da Toti dopo la revoca degli arresti: se la legge consente (anzi obbliga) la politica a ricevere finanziamenti da privati ottemperando a modalità trasparenti e documentate, come può tutelarsi una personalità impegnata in politica dal pregiudizio che – nonostante la correttezza della procedura – sia in atto un percorso di corruzione? Anche ammettendo che sia possibile una violazione dello spirito della legge pur nello scrupoloso rispetto delle norme che di questo si tratti deve pronunciarsi un giudice. Nel caso di Toti il pericolo di recidiva si riferiva a dei fatti che non erano ancora stati considerati reati in una sentenza passata in giudicato (e neppure emessa in primo grado); ma a Toti fu negata la revoca degli arresti domiciliari perché non si era reso conto dei suoi errori e poteva essere indotto a ripeterli credendo di essere nel giusto, in occasione di altre consultazioni elettorali, magari a distanza di anni. Secondo questo teorema l’ex presidente della Liguria avrebbe potuto rimanere agli arresti per un tempo imprecisato, cioè fino a quando in Italia si ricorresse periodicamente al voto. In questi casi come si definisce un imputato: un criminale matricolato? Un delinquente abituale o addirittura noto? Ma così la carcerazione diventa una misura preventiva e dissuasiva dal commettere in continuazione i medesimi reati. Pertanto era implicito che con le dimissioni di Toti sarebbe venuto meno l’elemento soggettivo del reato: se non è più presidente viene meno anche l’interesse a corromperlo.

Su questo sillogismo non si è riflettuto abbastanza, ma la logica del provvedimento porta, nei fatti, a privare Giovanni Toti del diritto di elettorato passivo. Nei giorni scorsi mi sono imbattuto su Il Foglio in una intervista di Carmelo Caruso a Pier Luigi Celli, nella quale l’ex direttore generale della Rai racconta, con orgoglio, di una riunione convocata per assumere decisioni importanti nella quale fu stabilito che «si sarebbero tenuti i telefonini fuori dalla stanza». Nel caso di Giovanni Toti e degli altri inquisiti un’analoga decisione è divenuta, invece, un indizio fondamentale della tresca secondo le indagini della procura di Genova. Quei cellulari hanno avuto persino un trattamento che non si sarebbero mai aspettato. È circolata sui media la pianta di un tavolo sul quale ogni apparecchio stava al suo posto con tanto di fumetto a contrassegnare il proprietario. In questa vicenda le opposizioni si sono fatte riconoscere per la vergogna di una manifestazione organizzata per chiedere le dimissioni di Toti senza la minima ombra di dubbio su di un’indagine giudiziaria molto discutibile. Era già pronto il candidato, l’ex ministro Andrea Orlando; ma il diavolo chi ha infilato la coda. David Ermini, già vice presidente del Csm e membro della direzione del Pd, ha accettato di farsi garante (assumendo la presidenza) del complesso industriale da cui era state messe in atto le manovre corruttive. Sollecitato a rinunciare - per ora - Ermini ha rifiutato, preferendo lasciare libero il suo posto nel partito. Vogliamo scommettere come finirà? Il M5S solleverà la questione morale come ha fatto in Puglia e l’opposizione andrà divisa alle elezioni regionali.