Le parole rilasciate dal più importante teologo italiano vivente, l’arcivescovo Bruno Forte, in una recente intervista sul senso cristiano della morte probabilmente rappresentano il modo più efficace per accostarsi alla fine della vita terrena di papa Francesco. La volontà di dar meticolosamente conto dell’implosione della propria salute, la scelta di esporre il proprio corpo infragilito dalle malattie evocano l’eroico incedere – affaticato sino allo stremo – di papa Giovanni Paolo II. Alla stizzita reazione del papa Santo nel constatare che la malattia non gli consentiva più di articolare le parole del proprio magistero, si è contrapposta la calma rassegnazione di papa Francesco che porge il foglio del proprio discorso a un sacerdote perché la polmonite incipiente gli strozza il fiato in gola. Due modi distinti, eppure non distanti, di approcciare lo spegnersi della vita che segnano una via per un mondo – come ricorda Bruno Forte – che assolutizza l’esistenza terrena agognandone l’eterno allungamento, senza considerare che solo l’amore è «il filo che collega la nostra vita all’eternità».

Non che questa sia una visione destinata a un numero, sempre più marginale, di credenti, ma costituisce l’essenza stessa dell’unica strada che l’umanità possa percorrere per evitare la propria distruzione, l’annichilimento delle armi. Possono, anzi devono, a questo proposito ricordarsi le parole che un non- credente, un ateo dichiarato, ebbe a pronunciare anni dopo la morte di papa Wojtyla: la sua malattia, la sua sofferenza, la condizione del suo corpo, che tanto hanno commosso i fedeli, ha fatto sorgere anche quella domanda, non propriamente cristiana, se in quelle condizioni il papa poteva ancora svolgere la sua funzione di vicario di Cristo, o non fossero preferibili le sue dimissioni, per evidenti difficoltà di dirigere una Chiesa che annovera nel mondo milioni di fedeli. Io che non ho fede penso che, a differenza di noi tutti, il papa non abbia considerato più il suo corpo come qualcosa di “suo”, ma come qualcosa di radicalmente e profondamente inscritto nella sua fede, di cui non più lui, ma solo Iddio poteva disporre» (Umberto Galimberti).

Tre papati, decenni di storia, segnati profondamente dall’irrompere nella vita della malattia, vissuta con declinazioni certo diverse, più o meno pubbliche, più o meno in accordo con le proprie inclinazioni e la propria personalità; talvolta con la virile resistenza dell’orgoglio polacco, talaltra con la mite e gentile riservatezza del teologo tedesco, infine con la solare e disinvolta accettazione del gesuita argentino. L’Italia ha avuto il privilegio di osservare da vicino tutto ciò, con la soglia di Pietro a un passo, con la vita di un papato profondamente intrecciata a quella della nazione. L’ultimo periodo della vita di papa Francesco è in intima continuità con il magistero che la Chiesa ha inteso impartire al mondo sul decisivo declivio della vita e della morte.

La contrapposizione all’aborto, la contestazione delle pratiche di eutanasia lungi dal costituire la manifestazione di irriducibile conservatorismo, non sono altro che la coerente testimonianza dell’importanza che il vicario di Cristo, con il proprio corpo, intende assegnare a questo passaggio cruciale dell’esistenza umana, quando la vita si spegne e la morte pretende di guadarla verso il nulla o verso l’eternità. Perché, sia chiaro, non è solo una questione di fede; perché il tempo a venire sarà interamente segnato dal significato decisivo che si attribuirà agli infermi, agli «scarti della società», alla malattia come condizione esistenziale praticamente ineludibile dell’umanità. Per millenni la malattia è stata una condizione periferica, rapida, marginale in fondo; la mancanza di farmaci e di terapie la rendevano uno snodo sincopato dell’esistenza, un intervallo quasi sempre breve e ineluttabile.

Oggi non è più così, almeno per le società del welfare, e la condizione della sofferenza si prolunga nel tempo, tende a essere nascosta, celata tra le mura domestiche o quelle di una rsa o di un reparto per lungodegenti. L’esibizione del corpo malato è un privilegio esclusivo che compete solo alla Chiesa e ai suoi ultimi papi, in coerenza con la storia della croce sul Golgota e al suo innalzamento al cielo da parte dei carnefici per essere mostrata al popolo.

Da questo punto di vista non c’è soluzione di continuità, ma un’identica lectio che prosegue con coerenza nella storia dalla parte delle pietre scartate, destinate a essere imperiture «testate d’angolo».

Poi, questo papato risulterà, probabilmente, segnato da due precise direttrici che resteranno forse indelebili e irretrattabili nella prossima storia della Chiesa: la corona di fiori lanciata in acqua l’ 8 luglio 2013 al largo di Lampedusa, nel giorno della sua prima uscita dal Vaticano per denunciare l'indifferenza del mondo sul dramma dei migranti nel suo «non saper piangere con chi piange» ; le parole sulla guerra che insanguina, dopo decenni, il cuore dell’Europa e il Medioriente. E questa è una storia tutta da scrivere.