Caro Direttore,

Capita raramente, ma capita che giustizia sia fatta. E allora ti ricordi perché hai scelto di fare l’avvocato, tanti anni e troppe sentenze fa. A metà dello scorso anno, mi viene a trovare a studio un dipendente di Roma capitale. Ha una gravissima patologia degenerativa, purtroppo incurabile, che genera problemi all’espressione orale e alla capacità motoria, ma non intacca le capacità cerebrali e intellettive che rimangono completamente impregiudicate.

Riesce con grande fatica a sedersi in sala riunione e, seppure parlando lentamente e a fatica, mi racconta che, negli ultimi anni (da quando gli hanno diagnosticato la malattia), il lavoro è stato l’unica cosa nella sua vita che ha continuato a farlo sentire “normale”. Usa proprio la parola “normale”. Ha un incarico direttivo in una importante struttura centrale del Comune. E lo ha svolto ottenendo sempre ottimi risultati, oltre una sinallagmatica gratifica economica che l’aiuta a pagare cure e aiuti, che nella sua condizione sono necessari spesso costosi.

A gennaio del 2024 viene fatta la selezione per la conferma dell’incarico e lui, nonostante abbia il curriculum migliore di tutti e un accertato raggiungimento di tutti gli obiettivi, viene escluso perché, a causa della sua patologia, non riesce ad parlare correttamente. Ma come? Ha svolto l’incarico sino ad un mese prima, ha ottenuto valutazioni eccellenti. Ma secondo la commissione d’esame non basta. Deve scandire bene le parole. Lui non sopporta questa ingiustizia perché, negli anni che gli “rimangono” (anche queste sono parole sue), vuole continuare a fare il suo lavoro, che non solo è bravo a fare, ma lo fa sentire vivo.

Facciamo ricorso al Giudice del Lavoro di Roma. In attesa dell’udienza, cerco di contattare l’Amministrazione per capire se sia disposta a trovare una soluzione conciliativa che eviti un processo “faticoso” per tutti e una possibile condanna per discriminazione. Trovo un muro di incomprensione. Nelle parole dei dirigenti e degli avvocati riecheggia un’ingiustificata alterigia: abbiamo ragione e ce lo dirà il Giudice. Offrono pochissime migliaia di euro, una specie di piccola mancia e lo fanno con un atteggiamento falsamente caritatevole.

Il mio cliente è sconfortato, non si aspettava una chiusura così netta da parte di colleghi che conosce da tantissimi anni, da prima della malattia. “Sono stanco, non so se accettare per dimenticare tutto, anche quest’ultima umiliazione” mi confida. Dovrei consigliarlo di credere nella giustizia, ma non ce la faccio. Non sono nelle sue scarpe e ne ho viste troppe. Gli dico solo di pensarci bene e farmi sapere. Dopo una settimana mi telefona: “andiamo avanti, non sopporto come si sono comportati. Posso perdere una causa, ma non la dignità”.

Segue il processo di cui, per carità di patria, evito di raccontare i dettagli. Ieri è stata pubblicata la sentenza: “non appare revocabile in dubbio che innumerevoli sono le regole ed i princìpi che rendono illecito che il candidato disabile, la cui disabilità non attenga ad un requisito essenziale ad un ruolo, ne riceva pregiudizio in una valutazione selettiva. (…) In questo caso (…) l’attore venne giudicato inidoneo perché il suo deficit di capacità di comunicazione verbale aveva proprio impedito alla Commissione di valutarlo adeguatamente.

Una spiegazione manifestamente discriminatoria per handicap, visto che sarebbe bastato, per trattarlo in condizione di effettiva uguaglianza con gli altri candidati in ragione della sua disabilità (che in quanto produttiva di naturale diversità esige trattamento ragionevolmente diseguale) consentirgli di rispondere per iscritto, mettendogli in mano una penna e un foglio di carta o dotandolo di un computer”. Per spiegare la discriminazione il Giudice fa un esempio: “uno dei più grandi fisici del ‘900, Stephen Hawking, perse ogni possibilità di parlare e di muoversi sin dai primi anni ’80, e tuttavia rimase titolare della cattedra lucasiana di matematica a Cambridge fino al 2009, e rimase fino alla morte, intervenuta nel 2018, direttore del relativo Dipartimento di Matematica Applicata e Fisica Teorica. Cosa che non può stupire più di tanto, se si considera che anche e soprattutto i lavori dirigenziali hanno prevalente carattere intellettuale”.

La sentenza condanna Roma capitale per condotta discriminatoria nei confronti di un disabile. Anche al danno morale, in quanto “la condotta discriminatoria è di per sé lesiva di un diritto fondamentale della persona costituzionalmente tutelato in modo specifico”.

Telefono al mio cliente per annunciargli che ha vinto. Mi ringrazia. “No, grazie a lei che ha continuato ad avere fiducia”. Mi risponde che nella sua condizione non ha più molte scelte da fare, almeno questa l’ha azzeccata. E lo sento ridere per la prima volta.

Da quando è cominciata questa storia, mi chiedo come faccia una Pubblica Amministrazione a disumanizzarsi al punto da non capire che il rispetto di valori costituzionali (artt. 2, 3, 4, 32) deve essere sempre alla base del suo operato; che, per usare le parole della sentenza, “la disabilità in quanto produttiva di naturale diversità esige un trattamento ragionevolmente diseguale”. Oggi, invece, penso che siamo stati fortunati a trovare un Giudice capace di mettere ordine nei valori per cui si disputava. Ma è una fortuna che il mio cliente si è meritato perché, come scriveva Calamandrei, “per trovar la giustizia bisogna esserle fedeli: essa, come tutte le divinità, si manifesta soltanto a chi ci crede”. E crederci non era facile per chi ogni giorno combatte una battaglia per sopravvivere a mille piccole e grandi ingiustizie per colpa del destino ma anche degli uomini.