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Bettino Craxi
Quando, quel pomeriggio del 17 dicembre 1993, Bettino Craxi e Tonino Di Pietro si trovarono faccia a faccia nell’aula del “processo Cusani”, il più mediatico del secolo, l’attesa era dello scontro tra giganti. Non ci fu scontro, e il gigante fu uno solo. Non colui di cui si invocava il “facci sognare” scritto sui muri di Milano, ma l’altro, quello che, nella notte del 30 aprile di quello stesso anno davanti all’hotel Raphael, il luogo dei suoi soggiorni romani, era stato inondato dalle monetine e dalle grida dei giovani comunisti che non disdegnarono in quell’occasione di affiancarsi a quelli del Msi. Nessuno li aveva fermati, né le forze dell’ordine né il segretario del Pds Achille Occhetto, che aveva appena terminato un comizio in piazza Navona, a due passi dal luogo dell’agguato.
Il 17 dicembre, verso le quattro del pomeriggio, Di Pietro esibisce sorrisi apparentemente tranquilli, ma un angolo della bocca ne tradisce la tensione. Nulla a che vedere con ciò che era accaduto al mattino, con l’interrogatorio del segretario della Dc Arnaldo Forlani, maltrattato perché non collaborava, e questo per il pm di Mani Pulite era intollerabile, tanto da fargli indossare i panni del lupo che si avventava sull’agnello. Pura apparenza, ma molto scenografica. Non così con il segretario del Psi che agnello non era e neanche lo sembrava. Uno che davanti allo specchio si raccontava così: “Parlare ad alta voce e ripetere le proprie idee fino a sfiancarsi. Unire delle forze e tenerle unite. Guardare alto. È il solo modo per difendere la propria libertà e la propria indipendenza”.
Un anno prima di quel processo, quando, dopo le elezioni di primavera, che gli avevano fatto ancora sperare di tornare al governo, stava invece votando la fiducia a Giuliano Amato, in un’altra aula, quella di Montecitorio, aveva lanciato la propria denuncia sui bilanci dei partiti. Tutti, aveva sottolineato con tono di voce fermo, erano in gran parte illeciti o illegali. Qualcuno mi smentisca, aveva provocato, e l’aula sgomenta era rimasta muta. Aveva invocato una svolta, con un programma di modernizzazione e moralizzazione della vita pubblica. Non la “questione morale” berlingueriana che distingueva i buoni dai cattivi, ma un vero processo di trasformazione di tutta la politica. Che si concretizzerà, nel gennaio del 1993, nella proposta di un’inchiesta parlamentare che gettasse luce sui finanziamenti dei partiti nei vent’anni precedenti. Presentò la proposta di legge e fece fissare la data della discussione, ma alla fine non se ne fece niente, e lui stesso fu irriso, anche perché lo stesso Psi aveva cambiato pelle con la segreteria di Giorgio Benvenuto.
Così, quando si ritrova a parlare ancora del finanziamento illecito ai partiti al cospetto del magistrato più amato dagli italiani, ormai il danno politico è stato fatto, gli arresti si sono susseguiti, e anche i primi suicidi. Il Grande Suicidio sarà inoltre quello commesso dalla stragrande maggioranza del Parlamento, con l’abolizione dell’immunità parlamentare, l’unico fondamentale contrappeso voluto dai padri costituenti perché non fossimo destinati a subire la repubblica giudiziaria, che da allora non è mai tramontata. L’appello di Craxi non era stato ascoltato, sebbene avesse in sé gli strumenti per arrivare persino a una sorta di accordo con la magistratura. Non il patto agognato dai procuratori Borrelli e Colombo, che volevano solo i politici in ginocchio, ma una vera trasformazione della società e della politica.
Il 17 dicembre 1993, nel pomeriggio, in quell’aula che aveva sentito le volte precedenti il pm urlare agitando la toga, e poi irridere e sfottere con battute sarcastiche tutti quelli che si erano seduti su quella sedia davanti al tribunale, Di Pietro non fece domande, ma si comportò come l’insegnante che chiede all’allievo di affrontare un argomento a scelta. Così il leader politico che gli irrispettosi ragazzotti della sala stampa avevano definito il “cinghialone” mentre esultavano a ogni informazione di garanzia, fu grande in tutta la sua statura e snocciolò i fatti per come erano stati, senza risparmiare nessuno.
Ci parli del finanziamento dei partiti, onorevole Craxi. “Della natura non regolare o illegale dei finanziamenti ai partiti e al mio partito, io penso, ho cominciato a capire quando ancora portavo i pantaloni alla zuava...”. E non ci sarebbe bisogno di aggiungere altro. I magistrati sapevano ormai tutto, tra l’altro, anche se non ci fu giustizia, alla fine. Né poteva esserci. Proprio perché il problema del finanziamento della politica, allora come oggi, non può essere risolto per via giudiziaria. Quelli che l’avevano capito, furono zittiti. Il presidente Cossiga, per esempio, l’unico a non farsi intimidire dalle toghe e che ebbe il coraggio di minacciare di mandare i carabinieri al Csm, che lui pure presiedeva. Messo in stato d’accusa proprio da quel partito, il Pci-Pds, che lo aveva fatto eleggere, era stato costretto alle dimissioni, benché il comitato parlamentare per le accuse avesse in seguito, ma dopo il suo abbandono, ritenute infondate le accuse avanzate nei suoi confronti. Meglio il moralista Scalfaro, per quei tempi.
Un altro intralcio a una sensata soluzione politica era stato determinato dallo scontro tra la magistratura di Milano e quella di Roma. Questa, dovendo scrollarsi di dosso la pessima reputazione di “porto delle nebbie” dove il malaffare non veniva visto o comunque perdonato, dovette cedere ai colleghi del capoluogo lombardo anche le indagini che le regole sulla competenza e sul giudice naturale imponevano fossero radicate nella capitale. Ma gli uomini della procura di Milano ebbero un’arroganza e una protervia sopra le righe. Noi ce lo possiamo permettere, di dare finalmente una lezione a questa classe politica corrotta, dicevano a ogni occasione, e i romani cedettero, senza neppure l’onore delle armi. Ci furono casi clamorosi, come il processo per la maxitangente Enimont, di cui quello contro Cusani, l’unico imputato a chiedere il rito immediato, fu l’antipasto, che terminarono con una strage di condanne. Ma in cui le indagini condotte dalle “toghe rosse” arrivarono solo alla soglia di Botteghe Oscure, la sede del Pci-Pds di Occhetto e D’Alema. Ma anche quelli dolorosi che videro in carcere l’ex ministro della Giustizia Clelio Darida e l’ex presidente dell’Iri Franco Nobili. Arresti ingiusti di persone che saranno poi assolte senza neppure processo. A Roma, non “porto delle nebbie”, ma giudice naturale.
«Da decenni - ancora le parole di Bettino Craxi - il sistema politico aveva una parte, non tutto, una parte del suo finanziamento, che era di natura irregolare o illegale; e non lo vedeva solo chi non lo voleva vedere e non ne era consapevole solo chi girava la testa dall’altra parte». Poi spiega che i bilanci, che ogni anno venivano depositati in parlamento, erano tutti falsi. Ma i partiti dell’opposizione, insinua con finta ingenuità Di Pietro, non vi chiedevano conto? Invito a nozze per il più anticomunista tra i socialisti, che ha agio di parlare della montagna di rubli in arrivo da Mosca e coglie l’occasione per ricordare che “il ravennate Gardini”, che aveva interessi nell’Emilia rossa e in Russia, non si sarebbe potuto mai dimenticare di dare qualche consistente obolo ai compagni comunisti. A proposto della maxitangente che sfiorò i leader del Pci-Pds senza che fossero indagati. Quella giornata del 17 dicembre 1993, quella in cui avrebbero dovuto scontrarsi due giganti ma ne apparve uno solo, resterà memorabile anche perché il giorno dopo, da Saverio Borrelli a Eugenio Scalfari, erano tutti furibondi con Tonino. Ma lui serafico aveva spiegato che si era trattato di strategia processuale.