Anche le prefiche del defunto abuso d’ufficio devono ammettere che l’esistenza del caro estinto non è stata proprio specchiatissima. Nonostante l’accanimento terapeutico di almeno quattro riforme in circa trent’anni di tormentata vigenza, non si è mai raggiunto l’obiettivo, condiviso nel tempo da tutti gli schieramenti parlamentari, di perimetrare l’area degli illeciti amministrativi meritevoli di assumere rilevanza anche penale.

A monte vi è, infatti, il concetto di abuso, di per sé quasi inafferrabile e comunque difficilmente tipizzabile, come richiesto dal principio costituzionale di stretta legalità penale.

La patologia congenita di questa sfortunata figura di reato non risiede tanto e solo nell’insuperabile tasso di indeterminatezza della condotta, quanto piuttosto nella inevitabile intromissione del giudice in settori riservati istituzionalmente alla discrezionalità della pubblica amministrazione. In altri termini, l’abuso d’ufficio ha rappresentato il terreno d’elezione dello scontro fra politica e magistratura, fra potere esecutivo e potere giudiziario.

Bisogna essere franchi nell’ammettere che, soprattutto i pubblici ministeri, hanno spesso utilizzato l’iscrizione di questo reato per aprire indagini su ipotesi di corruzione sprovviste della necessaria concretezza di una notitia criminis. L’abuso d’ufficio si è così prestato a fungere da pretesto, da anticamera della corruzione, da fumosa ipotesi di reato di natura congetturale utile per attivare quel pervasivo controllo investigativo sull’attività amministrativa che solo una indagine penale può consentire.

Da qui l’inevitabile tensione fra magistratura inquirente e mondo della politica, soggiogato dal timore di essere coinvolto in una vicenda giudiziaria che, per quanto evanescente, avrebbe comunque determinato danni reputazionali irreparabili, amplificati ad arte dal sapiente utilizzo del circuito mediatico.

Il “timore della firma”, infatti, non era tanto legato all’eventualità assai remota di una condanna, ma alla conseguenza più immediata e concreta della perdita di credibilità politica al cospetto di un’opinione pubblica maleducata al rispetto della presunzione d’innocenza.

L’abuso d’ufficio è così servito a una parte della magistratura quale strumento di azione e di lotta politica nel senso stretto del termine, per incidere su scelte amministrative sgradite o per condizionare la formazione del consenso elettorale.

Anche volendo prescindere dalle più evidenti strumentalizzazioni, questo micidiale ordigno ha permesso alla magistratura di controllare ogni settore della vita pubblica, dall’università alla sanità, dalle infrastrutture ai concorsi, dal governo locale a quello nazionale, stabilendo autonomamente e arbitrariamente quale dovesse essere il “normale” funzionamento della pubblica amministrazione.

Una fattispecie di reato che sposta i confini della separazione fra i poteri, che attribuisce al magistrato penale il compito di sindacare la legittimità dell’atto amministrativo al di là delle sue conoscenze, magari arrogandosi competenze specialistiche che sono fisiologicamente in capo al controllato piuttosto che al controllore. Si pensi ai concorsi universitari che per anni hanno visto i pubblici ministeri impegnati a contestare i giudizi di merito scientifico espressi da luminari della materia oppure agli appalti pubblici in settori iperspecialistici ritenuti sospetti solo perché non comprensibili.

L’abuso d’ufficio ha fatto scontrare mondi fra loro incomunicabili, nel corso di quei processi più volte ci si è resi conto che il problema risiedeva addirittura nei diversi codici linguistici che l’accusatore non riusciva a decifrare. Il risultato è stato quello di un generalizzato fallimento delle accuse già nella fase delle indagini, con spaventose percentuali di archiviazioni. nell’85% dei procedimenti.

Pochissime e rare condanne impietosamente fotografate dalle statistiche ministeriali che oggi gli inconsolabili orfani dell’abuso d’ufficio sembrano aver già dimenticato. Per non dire del drastico calo dei procedimenti, circa il 40%, dopo che nel 2020 si è tolto di mezzo il presupposto di una generica violazione del principio di imparzialità e di buon andamento della pubblica amministrazione. La legge n. 114 del 2024 ha somministrato l’eutanasia a un reato già da anni moribondo.

Il vero motivo per cui non dobbiamo rimpiangere l’abuso d’ufficio non è costituito, tuttavia, dalla sua cagionevole salute giudiziaria, ma risiede nel senso più genuino della democrazia, che si fonda sulla separazione fra i poteri e che confina l’intervento giudiziario penale sono in casi estremi, ben delimitati da quello che dovrebbe essere il diritto penale minimo.

Certamente gli epigoni del panpenalismo non potranno mai rassegnarsi alla perdita del miglior strumento messo a disposizione della repubblica giudiziaria.