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IMAGOECONOMICA
Il ministro Valditara, seguito con impeccabile sincronismo dal presidente del Senato La Russa, si è esibito nei giorni scorsi in uno dei più classici salti mortali della dialettica politica: parliamo della solita sovrapposizione tra violenza di genere e immigrazione. Un balzo retorico molto pericoloso, visto che riduce un tema complesso a un’eco da talk-show serale, il passepartout perfetto per qualsiasi dibattito populista.
Parlare di immigrazione, infatti, è un’arma retorica infallibile: mette d’accordo (quasi) tutti e, soprattutto, svia lo sguardo dalle vere cause della violenza di genere che nessuno vuole o riesce a toccare.
Eppure, in questa spericolata danza delle parole, è altrettanto sterile rifugiarsi in censure politicamente corrette, che decretano quali argomenti siano leciti e quali debbano restare imboscati sotto il tappeto delle ideologie. Prendiamo il famigerato patriarcato, ad esempio: per alcuni è il responsabile invisibile di ogni nefandezza sociale; per altri, un rudere ideologico da museo delle cere.
Ma, come suggerisce Alessandro Barbano, la violenza di genere e, in particolare, i femminicidi non sono meri fenomeni devianti. Sono invece il grido disperato, e velenoso, di un patriarcato che si spegne, il rantolo terminale di una mascolinità frustrata e incapace di digerire il passo accelerato dell’emancipazione femminile.
Marina Valcarenghi, militante e pensatrice, lo ha detto con una chiarezza chirurgica: le donne, in questi ultimi decenni, hanno attraversato una «liberazione velocissima», un’accelerazione che ha squarciato il tessuto del patriarcato, lasciandovi una voragine.
Ed è proprio questa voragine, percepita come una minaccia esistenziale, a innescare il cortocircuito di molti uomini, troppo fragili per accettare il crollo di un modello identitario obsoleto. I dati lo raccontano senza retorica: la maggior parte delle violenze, e dei femminicidi in particolare, non si consumano nei vicoli bui “infestati da clandestini”, ma tra le mura domestiche, in quella trincea borghese dove il patriarcato sta inesorabilmente implodendo.
Eppure, Valditara e La Russa, nella loro esibizione retorica, brandiscono i dati come clave, scegliendo con estrema precisione quelli che rinfrancano la loro narrativa: certo, ci sono casi di violenze commesse da stranieri, e negarlo sarebbe ingenuo. Ma ridurre la questione a questa sola variabile è una scelta irresponsabile. Perché i numeri dicono altro: i carnefici più comuni sono i partner, gli ex, gli uomini senza bisogno di visto o permesso di soggiorno, ma armati di un modello di possesso tossico e irredimibile. Ed è qui, nel cuore di questo modello, che andrebbe combattuta la battaglia.
Ma la scorciatoia di buona parte della politica è palese: si batte il tamburo dell’immigrazione perché è facile, perché polarizza, perché scivola senza ostacoli sul terreno identitario. Nel far questo, però, si lasciano intatte le radici del problema, si evita quel cambio culturale profondo e faticoso che solo potrebbe spezzare il ciclo della violenza. E così, ancora una volta, il corpo delle donne diventa un campo di battaglia per guerre che non hanno nulla a che fare con la loro incolumità.