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Che cosa accade se l’idea che il fine giustifichi i mezzi inquina il giudizio più decisivo per le sorti di una democrazia? La domanda è suggerita dalle parole di Nicolò Zanon, pronunciate a Milano pochi giorni fa, durante la presentazione del mio libro “La gogna”. Il vicepresidente emerito della Consulta commentava la recente sentenza che la scorsa estate ha legittimato le intercettazioni del deputato e magistrato Cosimo Ferri nell’inchiesta sullo scandalo dell’hotel Champagne. Si tratta di una decisione controversa, che ha spaccato la Corte, inducendo il relatore, Franco Modugno, ad astenersi dalla scrittura delle motivazioni, perché finito in minoranza.
Dando ragione al CSM, che quelle intercettazioni vuole usare per processare disciplinarmente Ferri, e torto alla Camera, che invece vuole negarle, la Consulta ha stabilito che l’intercettazione occasionale di un deputato non indagato è lecita se non è esplicitamente voluta, ancorché prevedibile. In questo modo è pervenuta a un risultato aberrante: basterà evitare di iscrivere il parlamentare nel registro degli indagati per poterlo intercettare, sia pure indirettamente. Anche perché a stabilire se l’intercettazione sia voluta o occasionale deve essere, secondo la Corte, lo stesso pubblico ministero che la richiede al gip. Con la conseguenza che la Camera potrà contestare al pm solo a posteriori di aver fatto intercettazioni di un parlamentare “volute”, spacciandole per “occasionali”. Ferri non è stato mai indagato, ma i finanzieri che intercettavano Palamara non hanno spento il Trojan durante gli incontri tra i due, pur essendo a conoscenza dell’immunità che avrebbe dovuto proteggere il deputato pd.
Nicolò Zanon era il vicepresidente della Corte che ha pronunciato quella decisione. La cui genesi ha spiegato durante la presentazione de “La gogna” a Milano, con le parole che qui riportiamo in maniera letterale: «Nel non detto di quella motivazione - a noi fece inviperire questa cosa -, c’è, e fu un argomento speso: non è pensabile che si dia ragione alla Camera perché, se diamo ragione alla Camera, le intercettazioni acquisite diventano prove non più valide e il rischio a catena è che tutti i processi disciplinari di fronte alla sezione – quei cinque che erano stati imbastiti contro quegli sventurati partecipanti alla serata dell’hotel Champagne – finissero nel nulla. Non era possibile smentire la Cassazione e la sezione disciplinare del CSM, questa vicenda è arrivata così da noi. E questo la dice lunga su alcuni equilibri tra poteri dello Stato».
Parole di questo peso, pronunciate da un pulpito così alto – Zanon ha lasciato la Corte l’ 11 novembre scorso – hanno innescato una ridda di interpretazioni. C’è chi ha visto una denuncia di pressioni sui giudici costituzionali o, addirittura, un’accusa contro gli stessi di abuso d’ufficio, poiché la Corte avrebbe avallato una violazione della Costituzione per favorire il CSM e la Cassazione e per danneggiare gli imputati dell’hotel Champagne. E c’è chi invece imputa a Zanon la violazione del segreto della Camera di Consiglio della Consulta. Come ha chiarito l’associazione “Italia Stato di diritto”, per bocca del suo presidente Guido Camera, queste interpretazioni sono esagerate.
Il vicepresidente emerito della Consulta non ha accusato nessuno e ha solo parzialmente confermato un sospetto che, di fronte a una sentenza così platealmente abnorme, qualunque giurista che si rispetti nutriva da sé. Zanon ha detto che il giudice delle leggi, il massimo organo di garanzia sui comportamenti tenuti dalle istituzioni, ha deciso su una delle questioni più importanti nel rapporto tra i poteri, cioè il perimetro dell’immunità parlamentare, attenendosi a criteri di economia processuale e di difesa corporativa.
Cioè ha deliberato preoccupandosi di non far cadere i giudicati disciplinari di condanna nei confronti di Palamara e dei cinque consiglieri del CSM, e preoccupandosi di non smentire la Corte di Cassazione che quei giudicati aveva confermato. Zanon ha detto: «Non era possibile smentire la Cassazione e la sezione disciplinare del CSM», aggiungendo che quello «fu un argomento speso», cioè utilizzato nella discussione che precedette la sentenza. Perché, ha fatto capire, «questa vicenda è arrivata così da noi». E se qualcuno si chiedesse da dove «è arrivata così», può intuirlo dalla sua frase successiva: «E questo la dice lunga su alcuni equilibri tra poteri dello Stato».
Poiché a sollevare conflitto di attribuzione con il Parlamento è stato il CSM, che ha istruito i procedimenti disciplinari per il tramite della Procura generale della Cassazione, noi possiamo ipotizzare – anche se Zanon non lo dice esplicitamente – che la preoccupazione per la sorte dei giudicati disciplinari di Palamara e compagni venisse dai vertici del potere giudiziario. Zanon dice altresì che quella preoccupazione «fu un argomento speso», cioè utilizzato nella discussione della Consulta. Se si tradusse in una deliberazione così irrituale è perché fece presa sulla maggioranza dei giudici costituzionali. Che, com’è noto, sono quindici. Ipotizzando, con un pizzico di pregiudizio, che i cinque di nomina magistratuale abbiano costituito su questo punto un gruppo coeso, c’è da ritenere che altri li abbiano seguiti sulla stessa strada. Per convinzione o piuttosto per convenienza a non confliggere con una minoranza organizzata che, così, è diventata una maggioranza. Al prezzo di mettere sotto i tacchi la Costituzione e isolare un giurista del calibro di Franco Modugno. La sua rinuncia a scrivere la sentenza vale da sola quanto un’opinione dissenziente. Ma chiama il Parlamento e il Quirinale, che nominano cinque membri ciascuno, a valutare con maggiore scrupolo i profili di competenza, di indipendenza ( non solo dalla politica) e di autorevolezza dei futuri inquilini della Corte.
Questa vicenda segnala uno slittamento che va ben oltre i confini dello scandalo dell’Hotel Champagne. Perché l’ampiezza dell’immunità parlamentare è uno dei punti più qualificanti della Carta, in quanto definisce la divisione e il rapporto tra i poteri di una democrazia. Subordinare una decisione di quest’altezza a una qualunque finalità, processuale o, peggio, corporativa, vuol dire inquinare e compromettere la terzietà e l’indipendenza del massimo organo di garanzia. Cioè sguarnire la democrazia di una fondamentale salvaguardia.
D’altra parte non si può ignorare che una logica sostanzialista abbia infiltrato da tempo la politica, la società e le istituzioni, e che altre decisioni della Consulta siano state orientate al perseguimento di fini etico- sociali capaci di porre in secondo piano una valutazione dei mezzi. Penso alla sentenza 24 del 2019 con cui è stato “salvato” il sistema delle misure di prevenzione, dopo le dure censure espresse dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Con un sofisma giuridico si è giunti a coniare la natura “sui generis” delle confische, negando loro uno statuto penale e giustificando l’afflittività che producono ai destinatari come un mero effetto collaterale di una finalità ripristinatoria. L’obiettivo di questo sofisma, fortemente caldeggiato dalla magistratura antimafia, era la protezione di un sistema sanzionatorio che ha sostituito la colpevolezza con la pericolosità e le prove con il sospetto, e che consente di confiscare immensi patrimoni a cittadini assolti o piuttosto mai indagati. Anche in quella circostanza la sentenza della Consulta fu adesiva al magistero della Corte di Cassazione, la quale fece propria la preoccupazione della magistratura antimafia di non indebolire quello che era considerato il più potente mezzo di contrasto alle mafie, l’ablazione dei loro patrimoni, un procedimento a cui bisognava negare le garanzie del processo penale. Bisognava cioè preservare l’immane potere di dare pena senza provare colpevolezza.
La contiguità tra organi di garanzia e potere giudiziario rischia di trasferire sul giudice delle leggi una logica politica di risultato che la magistratura ha dato tempo fatto propria, interpretando la delega ricevuta dalla politica per approntare quella che Alberto Cisterna ha definito sul Dubbio «una modifica genetica del proprio statuto». Per la quale l’intera offerta di giustizia nel nostro Paese è stata riorientata verso obiettivi etico- politici, che siano il contrasto alle mafie o piuttosto la bonifica morale della sfera pubblica. Obiettivi nobili, dietro i quali tuttavia è andata costituendosi un’ideologia del potere che purtroppo è fonte di degenerazioni autarchiche, di cooptazioni opache e di protezioni corporative. Di cui la sentenza sul caso Ferri è un inquietante indizio. Per questo la denuncia di Nicolò Zanon è molto più che un sassolino tolto dalla scarpa di un giurista finito in minoranza. E lancia alle più alte coscienze e istituzioni del Paese un allarme che sarebbe bene raccogliere per tempo.