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Si deve fare appello al disincanto, se si vuol star dietro alla rivolta di alcuni sindacati di polizia, e del “Sappe” in particolare, contro l’apertura all’affettività nelle carceri. Il brusio montato per giorni nelle chat degli agenti è definitivamente deflagrato nella lettera inviata lunedì dal Sindacato autonomo polizia penitenziaria, il Sappe appunto, al sottosegretario Andrea Delmastro e a Massimo Parisi, direttore del Personale al Dap.
Una nota in cui il segretario Donato Capece bolla come “inaccettabile” che “si chieda a donne e uomini già fortemente gravati da turnazioni estenuanti, di assumersi ulteriori compiti, peraltro estranei alla loro funzione istituzionale, come la vigilanza e la gestione di rapporti intimi all'interno degli istituti”. Ancora: “Non possiamo tollerare che la dignità professionale dei poliziotti penitenziari venga svilita fino al punto da renderli, di fatto, custodi dell’intimità altrui. Noi non ci siamo arruolati per diventare "guardoni di Stato", né accetteremo che tale ruolo improprio venga normalizzato per l’assenza di un progetto credibile, serio e sostenibile”. Un’escalation di smarrimento e frustrazione.
E si potrebbe rispondere in vari modi. Si potrebbe far notare che il voyerismo o è volontario o non è. Accompagnare un recluso e la sua compagna in una sezione in cui possano appartarsi non comporta affatto che si sia costretti a spiare. Ma si rischia di ridursi a grilli parlanti. Si rischia di avvalorare indirettamente l’idea del Sappe secondo cui la circolare diffusa dal Dap con le istruzioni per allestire gli spazi destinati all’affettività risponda a uno spirito “più ideologico che operativo”.
C’è dell’altro, e affiora anche grazie alla nota diffusa, sulla vicenda, da Jacopo Morrone, deputato della Lega, partito che al Sappe è stato spesso legato da un rapporto di osmosi. Secondo il parlamentare, la circolare del Dap contestata dai “baschi azzurri” sconcerta anche perché non esclude del tutto da questo tipo di incontri “i detenuti che compiono seri illeciti disciplinari o che sono ristretti nelle sezioni ‘art. 32’ per i loro reiterati comportamenti aggressivi”. Poco più avanti Morrone aggiunge: “C’è una sottovalutazione dei possibili fruitori di questo ulteriore benefit”.
Insomma, l’idea che si ricava da questa ribellione a un diritto sancito come tale dalla Consulta è nel considerare i detenuti come uomini e donne. Nulla più della sessualità è “umano”, ed è qui la radice dello sconcerto. Il nuovo diritto entra in contraddizione con un’idea sedimentata, secolare (e non concepita certo né dal Sappe né dall’onorevole Morrone) che tende a “mostrificare” i carcerati. La narrazione collettiva, da sempre, identifica il “colpevole” col subumano, il mostro appunto. E perché mai i subumani, e i mostri, dovrebbero avere una sessualità al pari degli umani?
C’è poi quell’obiezione sui “comportamenti aggressivi”: ma la sessualità dovrebbe casomai venire incontro, nella gestione di profili del genere. O pensiamo di risolvere tutto a botte di psicofarmaci? Siamo convinti che il Sappe non intenda affatto ridurre il principio costituzionale della “umanità della pena” alla somministrazione di benzodiazepine. E siamo certi che Morrone volesse solo abbandonarsi a un’iperbole, nel citare le “critiche” dei “cittadini” che “continuano a considerare le carceri come un luogo di espiazione della pena, di rieducazione e reinserimento lavorativo e non ‘case di piacere’ per qualcuno”. Nelle case di piacere, in genere, non ci si suicida.