La morte di Yahya Sinwar, leader e simbolo stesso di Hamas, segna un momento di rottura nel panorama del conflitto mediorientale, ma come spesso accade la realtà è più sfumata e complicata di quanto possa apparire a prima vista. Thomas L. Friedman ha colto nel segno quando ha parlato di una possibile apertura per una tregua e di un riavvicinamento tra Israele e il mondo arabo. Tuttavia, pensare che la fine di Sinwar corrisponda alla fine di Hamas o, peggio ancora, a un preludio per la pace, è un'illusione pericolosa.

La macchina di Hamas e la “determinazione” del governo israeliano non si fermeranno con la morte di un singolo uomo.

Sinwar era il volto del pogrom del 7 ottobre, ma la sua morte è un colpo tattico, non strategico.

Netanyahu, il cui governo ha sempre trovato nel terrorismo islamista una giustificazione per le sue politiche di sicurezza, sta già spiegando che eliminare un singolo leader non significa eliminare la minaccia. E qui si gioca la partita più grande: Netanyahu è un maestro della narrazione politica. Ha costruito la sua carriera sulla convinzione che la sicurezza di Israele dipenda da lui, dal suo pugno duro, dal suo rifiuto di negoziare con quelli che considera nemici irriducibili. Ma in questo frangente, l’eliminazione di Sinwar può avere un doppio effetto. Se da un lato può placare una parte dell'opinione pubblica israeliana sconvolta dalle atrocità di Hamas, dall’altro potrebbe minare proprio la narrativa che ha permesso a Netanyahu di restare al potere così a lungo.

Perché se Hamas viene decapitata, se Hezbollah viene indebolita, se la minaccia esterna si riduce, diventa più difficile giustificare una politica basata esclusivamente sulla difesa e sull'espansione. E a quel punto, la domanda che molti si pongono è: quale sarà il prossimo passo?

Con figure come Itamar Ben- Gvir e Bezalel Smotrich al suo fianco, Netanyahu sembra sempre meno propenso a prendere la via del dialogo. Questi leader della destra messianica vedono nella morte di Sinwar un’opportunità per intensificare il controllo sui territori palestinesi, non certo per cercare una soluzione pacifica. La loro agenda è chiara: espandere, consolidare, non convivere. La coesistenza non è nemmeno un’opzione. E questo rischia di portare Israele in un vicolo cieco, perché l’espansione continua non può che alimentare ulteriori tensioni e nuove forme di resistenza.

Il paradosso, però, è che l'eliminazione di Sinwar e l’indebolimento progressivo di Hezbollah potrebbero portare Netanyahu a trovarsi senza il suo tradizionale nemico da agitare di fronte alla pubblica opinione nazionale e internazionale. Per decenni, il premier israeliano ha saputo giocare la carta della minaccia esistenziale per mantenere il potere, alimentando la percezione di essere l'unico in grado di garantire la sicurezza di Israele. Ma cosa succede se quella minaccia si riduce? Cosa succede quando la narrativa della paura non basta più?

E qui arriviamo alla questione iraniana. Netanyahu ha fatto della lotta contro la teocrazia degli Ayatollah uno dei suoi cavalli di battaglia, e l’attacco a Teheran sembra sempre più vicino, inevitabile. Se riuscisse a destabilizzare il regime di Khamenei, Netanyahu non solo rafforzerebbe la sua posizione all'interno di Israele, ma guadagnerebbe uno status internazionale senza precedenti: e quelli che molti considerano il “macellaio di Gaza” diverrebbe in un attimo l’uomo che ha liberato la regione dall’egemonia di Teheran. E ricordiamo: l'Iran è il grande antagonista non solo di Israele, ma anche degli Stati Uniti. I quali, ieri, hanno salutato con favore l’eliminazione di Sinwar: “E’ un bel giorno per Israele, per gli Stati Uniti e per il mondo”, ha dichiarato Biden.

Insomma, se Netanyahu riuscisse a infliggere un colpo mortale al regime iraniano, allora il racconto di questa drammatica guerra sarebbe un altro.

Tuttavia, la vera domanda è un’altra: Israele è pronta per un cambiamento?

La morte di Sinwar potrebbe essere l’occasione per ripensare il futuro del paese, per aprire finalmente una porta al dialogo e alla coesistenza. I paesi arabi come l'Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti sono disposti a sostenere un processo di pace, ma anche Israele deve fare la sua parte.

Netanyahu, con il suo passato legato indissolubilmente al conflitto, è davvero l’uomo giusto per guidare questa trasformazione?

Israele si trova a un bivio storico.

Continuare sulla strada della guerra, con Netanyahu al timone, o voltare pagina, cercando una nuova leadership che abbia il coraggio di costruire ponti.

La morte di Sinwar apre una finestra di opportunità, ma questa finestra non resterà aperta a lungo. La partita si gioca ora.