Tutto quello che so è che Cecilia Sala è stata arrestata lo scorso giovedì, 19 dicembre 2024, in Iran. Tutto quello che so è che vorrei che tornasse adesso, anzi che fosse già tornata. Che non fosse stata proprio arrestata. Ci penso da ore a quei particolari cretini che riguardano il passato: se non fosse partita, se avesse girato a destra, se avesse piovuto (l’ho detto, sono particolari cretini e inutili e servono a quietare l’ansia; anzi, non servono a niente).

Tutto quello che so è che ho passato ore a chiedermi dove fossi io in quella stupida giornata. Lo so, è poco importante, ma quando hai l’ansia va bene concentrarsi sulle cose inutili e va bene anche contraddirsi e scansare la disperazione della propria impotenza.

L’ambasciatrice italiana è andata a trovarla ieri, mentre eravate tutti distratti da altro. Annebbiati da una digestione faticosa e maledetta. Annoiati dalle lagne e dai parenti. Impegnati a promettere “mai più” sapendo benissimo che questa promessa vale meno dell’ultima sigaretta. Lo so, è normale. Quando non sai, quando non ti riguarda. È l’acquario di Aleksandar Hemon.

L’ambasciatrice si chiama Paola Amadei e io rimango imbambolata a guardare la sua foto come potesse essere un presagio. Che sia una donna è un bene? Un male? È uguale? Che sia bionda? Poi mi dico “ma sei cretina proprio”. Lo dico ad alta voce.

Leggo il suo messaggio dello scorso 18 marzo: “Italia e Iran sono due Paesi eredi di civiltà millenarie e vantano entrambi una profondità storica e culturale con pochi eguali al mondo. Questo tratto comune è ben visibile ancora oggi, in particolare nell’interesse che le due culture generano l’una verso l’altra, in un processo di costante arricchimento e di approfondimento della conoscenza reciproca”. E poche righe più sotto: “Italia e Iran hanno una comune responsabilità nel preservare pace e prosperità a livello globale”.

Penso al bullo delle scuole medie. Quello che ti aspettava a ricreazione con le braccia incrociate dietro l’angolo o in agguato all’uscita. Quello che ha trasformato la campanella in un segnale di allarme. Che ti rubava la merenda e poi ti chiedeva scusa e non lo faccio più solo per non essere espulso e che poi il giorno dopo ricominciava. Mi chiedo se ho battuto la testa o se sono sempre stata così irrimediabilmente imbecille.

Continuo a provare a distrarmi dal pensare a Cecilia. In una cella, isolata, e forse al freddo. Ogni ora di chi è fuori da lì vale almeno 8, come gli anni dei cani. Forse di più: un’ora qui per 60 lì. Ogni sigaretta è una comodità impensabile, un lusso commovente. Un maglione o una coperta, cose ovvie e che mettiamo o scansiamo senza nemmeno pensarci. Avrà lo spazzolino da denti?, mi chiedo. Avrà abbastanza da mangiare? Niente è ovvio, niente è rassicurante. Il tempo è intollerabile per chi aspetta. Lo è ancora di più per chi è aspettato.

Un’ultima cosa, stupida anche questa e irrilevante rispetto alla gravità dell’arresto e alla incertezza di questi stupidi e feroci giorni di attesa. È una cosa stupida e irrilevante ma che sarebbe così facile da evitare. Perché tutto quello che possiamo dire è che non sappiamo niente e che possiamo solo aspettare e che abbiamo paura. Starà bene? Avrà freddo?

Smetto di leggere perché mi sembrano quasi tutti commenti osceni e perché va bene la distrazione e vanno bene le cose stupide e irrilevanti per sopire la preoccupazione ma c’è una linea che non posso calpestare. Come quando da piccola dovevo restare dentro alle mattonelle, pena la fine dell’universo.

Quanto manca? Oggi so che l’universo non finirà per le linee calpestate e per le scemenze e vorrei solo che Cecilia tornasse adesso. E, egoisticamente, che non fosse mai partita. Perché domani è già tardi e queste 192 ore sono in realtà 11520 ore. Undicimilacinquecentoventi.

*Chiara Lalli, giornalista, è coautrice con Cecilia Sala del podcast “Polvere. Il caso Marta Russo”.