Sono nato e cresciuto a Santa Cristina d’Aspromonte. Ci trascorro ancora molti giorni, di più in estate. Qui ho seppellito i miei morti, che contano più dei vivi. Qui vengo a respirare l’aria che già fu fiato di mio padre e di mia madre. Qui mi incatena il marchio di troppi ricordi. È un piccolo borgo, pietre nel levante a cavalcioni sulla collina, ai piedi della montagna lussureggiante. Ovunque, gli ulivi. Sono più maestosi che altrove e affondano le radici nella sabbia di un mare antico, per un connubio con il clima che fa sì che si produca l’olio con le migliori qualità organolettiche. Ora è diventato triste teatro di un omicidio brutale, di una barbarie inaudita. Che ha portato sgomento e dolore.

È stata uccisa la dottoressa Francesca Romeo, che era una di noi, una donna senza ombre, benvoluta, stimata, e non poteva essere diversamente per un medico che ha offerto per oltre un trentennio la sua apprezzata professionalità nella guardia medica e che si sentiva concittadina – è di pochi giorni addietro la sua partecipazione alla tradizionale sagra della castagna, svolta in piazza, di fronte al suo ambulatorio. Avvertiamo il peso della tragedia, ci grava macigno addosso. La costernazione, il dolore e lo sgomento avvolgono l’intera comunità, che non si dà pace a fronte di un omicidio brutale, di una barbarie inaudita, che riconosce la mostruosità di un accanimento da primitivi, la vigliaccheria di un agguato su persone inermi, forse per motivi banali, magari di quelli che altrove al più comporterebbero la privazione del saluto, la civiltà della carta bollata, o magari di quelli legati a una pretesa assurda, illegale, e da lei rifiutata.

Oggi l’Aspromonte interrompe la sua corsa a risorgere dalla reputazione affossata dai sequestri di persona e retrocede ai suoi anni più bui. Oggi io per primo mi sento sconfitto. Oggi riconosco nell’uomo la bestia più feroce. Oggi qualcosa mi si è incrinata dentro e traballa la difesa a oltranza, che mi vede in trincea da decenni, di questa mia terra di Calabria. Spero solo che dipenda dall’impatto su questo episodio agghiacciante e che di nuovo saprò oppormi a chi ci mette impegno per additarci all’Italia un popolo irredimibile e su cui non sprecare pensieri né risorse. Intanto, però, l’emozione non si lascia ragionare e io non conosco altro rimedio se non quello d’inginocchiarmi di fronte al dolore di una famiglia perbene vittima di una bestialità senza eguali.

Le modalità sono quelle di un delitto di ’ndrangheta: l’agguato all’uscita di un tornante sulla macchina rallentata, uno o due carnefici che compaiono improvvisi dagli ulivi, il fucile forse segato a lupara, due colpi mirati, uno a palla e uno a pallettoni, esplosi da breve distanza sul bersaglio donna e che infliggono morte, la fuga all’interno della campagna. Gli inquirenti tendono a escludere il delitto di ‘ndrangheta. Avranno le loro buone ragioni. Resta l’efferatezza. Resta che, si tratti di ’ndrangheta o no, l’episodio è il frutto inselvatichito e malefico di una mentalità ristagnante e delittuosa – apparterrà ormai a pochi ma non si riesce a estirparla.

Ragiono sull’accaduto: è avvenuto alle otto di mattina, lungo l’unica strada, la statale 112 tra il Tirreno e lo Ionio, che conduce a Santa Cristina. Ebbene, a quell’orario macchine s’inerpicano su quei secchi tornanti dove le corriere dei miei ricordi più remoti pareva dovessero esalare gli ultimi rombi del motore; le campagne ulivetate sono già frequentate per la raccolta del frutto; e in giro ci sono i cacciatori in agguato sui tordi che si posano tra la fronda o sui rami secchi degli alberi denudati dall’autunno. Assolto l’infame gesto, si saranno spacciati cacciatori. E qualcuno potrebbe averli incontrati, più sì che no, o potrebbe essersi accorto della macchina nascosta. Se così, gli occhi che li hanno avvistati devono, ripeto devono, fornire indicazioni utili agli investigatori, a compenso della civiltà che l’efferatezza del crimine ha appannato.

Sono salito al paesello. E mi sono guardato intorno. C’è un’atmosfera irreale, incredula. E un vago senso di colpevolezza, ma per la mostruosità avvenuta qui, campeggiando la certezza che non c’è tra noi uno che si sia potuto macchiare dell’atrocità. Sono rimasti a vivere in poco più di 500. E si profila vicino il destino di paese fantasma dopo essere stato per otto secoli, a partire dal decimo, uno dei centri più importanti della provincia, anche feudo e residenza dei Ruffo di Calabria. È stato un’oasi di pace all’interno dell’Aspromonte abbrutito negli anni ’ 70/ 80 dalle colpe dell’uomo. E ha un’elevata scolarizzazione, con molti laureati tra i quali figure di eccellenza: generazioni di magistrati, primari ospedalieri, professori universitari, medici di caratura nazionale. Anche per questo la tragedia ci ha colpiti in profondità e la ferita stenterà a rimarginarsi. Anche per questo in qualche misura ci conforta, pur nel dolore della perdita, la notizia del Tg R che la pista riferita alla guardia medica si è squagliata più che la neve di maggio in bassa collina. Ma resta l’efferatezza. E poco importa da dove siano arrivati i colpevoli. Importa che è successo e non doveva succedere. Importa che si è spenta una vita, e di una persona degna. Importa che la civiltà stenta ad assodarsi.