L’eco dei cortei femministi degli anni Settanta - “l’utero è mio! E me lo gestisco io” - sfida i decenni, bussando al mio orecchio, ogni volta che il disegno di legge in materia di procedibilità del reato di surrogazione di maternità fa qualche passo in avanti verso il varo definitivo.

Come è accaduto lo scorso 3 luglio, quando la Commissione Giustizia del Senato ha concluso l’esame del ddl numero 824, già approvato dalla Camera dei deputati, in trattazione congiunta con altre proposte di legge.

Il cosiddetto reato di gestazione per altri, per la verità, esiste già (è punito dall’articolo 12, legge 19 febbraio 2004, n. 40) ma, con questa modifica, assume una vocazione universale. Si vuole, in sostanza, colpire chi si reca all’estero - ove questa pratica è lecita - punendolo con la legge italiana. Almeno (magra, magrissima consolazione), non sono passati gli emendamenti della Lega che avrebbe voluto inasprire di molto le pene già esistenti.

Anche al netto di ogni considerazione tecnica - già l’Accademia ha irriso la costruzione di un reato universale senza porsi il problema della doppia incriminazione (perché possa essere punito il fatto commesso all’estero è essenziale che sia previsto come reato nello Stato in cui è consumato il fatto)- a preoccupare, ancora una volta, è il fideistico affidarsi alla mannaia del diritto penale, un made in Italy securitario da esportare persino fuori dai confini nazionali, per legiferare, a suon di divieti, sul corpo delle donne. E non solo.

È fin troppo evidente che le intenzioni politiche di questa maggioranza vadano nella direzione, sbandierata ai quattro venti, di evitare alle coppie omosessuali di avere figli, poco importa se la donna che offre il suo utero sia consenziente, non sfruttata, economicamente attrezzata, consapevole di offrirsi per un gesto solidaristico o comunque in esecuzione di clausole non sbilanciate a favore di committente. La surrogazione di maternità è punita tout court: tanto quella, deprecabile, che si realizza con l’inaccettabile sfruttamento economico di donne fertili, spesso provenienti dal Sud del mondo, schiavizzate per assecondare i desiderata di ricche coppie di occidentali alla ricerca di un sogno a basso costo, tanto quella che viene regolamentata in modo serio e che offre garanzie di equilibrio e parità di condizioni contrattuali tra le parti.

Ancora una volta appellarsi all’egemonia del diritto penale per regolare fenomeni sociali così complessi, che implicano letture su piani diversi (bioetico, culturale, filosofico) finisce per silenziare, senza offrire risposta alcuna, le molteplici domande che si agitano dietro la gestazione per altri. Interrogativi, certo, non soluzioni definitive e monolitiche che, tuttavia, dovrebbero alimentare un dibattito almeno rispettoso dei molteplici punti di rifrazione in cui si frammentano questioni controverse. Il desiderio di essere genitori è un diritto assoluto da difendere ad ogni costo? O è bilanciabile con altri diritti? Quali, nel caso?

Il ricorso alla pratica della surrogazione di maternità è uno degli strumenti di tutela di questo diritto o è un costo insostenibile? E se, come ha scritto lapidariamente la Corte costituzionale nel 2014, a proposito della fecondazione eterologa, è possibile immaginare, tutelare e salvaguardare nuove declinazioni di famiglia? Quali sono le vulnerabilità in gioco? Quali sono i termini oltre i quali la dignità della libera scelta di mettere a disposizione il proprio corpo si trasforma in sfruttamento e schiavitù? Lo scambio di denaro tra committente e madre sostituita è sempre sintomo di sfruttamento? Madri sono solo quelle biologiche o anche quelle intenzionali? Ed è corretta l’obiezione “prima di mettere al mondo un figlio con l’utero di un’altra donna, tanto vale adottarne uno che soffre”? Specie al cospetto delle difficoltà che affliggono il sistema delle adozioni interne e internazionali? Ci sono evidenze concrete delle conseguenze negative sul nascituro spesso usate come argomento per legittimare il divieto?

Nel Paese degli obiettori di coscienza, dei cimiteri dei feti, della barbara proposta di obbligare le donne che decidono di abortire ad ascoltare il battito del feto, della prassi medioevale di costringere quelle che non hanno scelto di abortire ad accedere ad ambulatori gomito a gomito con la sala parto, dei fertility day, della propaganda stucchevole a rendere la filiazione (quella secondo natura si intende) un mantra pop, stigmatizzando le donne che non ne vogliono sapere, senza minimamente incoraggiare quelle che lo desiderano davvero con politiche di sostegno effettivo alla genitorialità o con la liberalizzazione della fecondazione eterologa anche per madri single, nel paese in cui le pratiche di adozione sono una gincana esasperante riservata alle coppie sposate o seriamente conviventi ( perché meglio l’orfanotrofio di un’adozione monogenitoriale), parlare di gestazione per altri in modo serio, laico, approfondito è una chimera.

Anzitutto perché occorrerebbe uscire dal “porto sicuro” del diritto penale col binocolo puntato sull’analisi dei profondi mutamenti sociali che ormai si incastrano sempre meno entro il modello precostituito della famiglia tradizionale e che, nel caso specifico della gestazione per altri, fanno irrompere sulla scena dinamiche relazionali nuove, intrecci di corpi, di biografie, di esperienze nelle quali ad essere sotto osservazione dovrebbe essere (solo) la verifica della genesi e il perdurare del consenso della madre sostituita.

Ma la stagione non sembra certo delle migliori per mettersi in viaggio. Didier Fassin ha scritto, anni fa, che punire è una passione contemporanea. Vietare, quando si parla del corpo della donna, è una passione che non conosce tempo nonostante l’inutilità dei risultati. È accaduto anche con l’aborto: impedirlo lo ha solo reso clandestino, non lo ha eliminato. Accadrà anche con la gestazione per altri (che tra l’altro esiste dalla notte dei tempi). Accade ogni qual volta il confronto pubblico resta serrato entro le strettoie della dittatura morale (moralista) della maggioranza divenendo impermeabile alle notevoli mutazioni sociali e culturali che investono le relazioni umane, senza analizzarle a dovere.

Forse dovremmo provare a superare quel bivio, ormai stantio, in cui pare essersi incagliata la discussione, tra proibizionismo e libertà contrattuale, tra universalismo dei diritti e libero mercato, che rischiano di appiattire il livello del confronto dando biada a tifoserie partigiane per nulla utili. Per esempio chiedendosi: è possibile imporre a una donna di essere o non essere madre, di usare o non usare il proprio corpo per fini riproduttivi? È possibile mantenere stabile il primato della donna nella procreazione anche se decide, liberamente e scientemente, di farlo per altri?

Le cose non sembrano andare meglio a livello Europeo. Nel suo ultimo rapporto sulla revisione della Direttiva 2011/36 UE, il Parlamento Europeo ha incluso la “surrogacy for riproduttive exploitation” nella definizione di tratta di esseri umani. Ne parla Maria Grazia Giammarinaro in un articolo pubblicato dal Centro di Studi e Iniziative per la Riforma dello Stato, criticando la riduzione di ogni forma di surrogacy entro il bacino ideologico della lotta alla schiavitù e la deriva, conseguente, di considerare le donne sempre vittime, incapaci di decidere cosa è dignitoso per loro, essendo piuttosto le autorità pubbliche «ad imporre una nozione astratta di dignità forgiata su ciò che il senso comune considera tale».

Più che criminalizzare le scelte riproduttive delle donne, forse andrebbe punito chi le rende schiave di un mercimonio (o ancelle, stando a Margaret Atwood). A testimoniare la complessità dei punti di vista implicati da queste domande, basti considerare, sempre secondo Giammarinaro, come su questo specifico tema della gestazione per altri una parte del femminismo europeo condivide con gli orientamenti religiosi ultra conservatori la posizione di un niet non negoziabile.

Da un lato la paura della perdita del valore simbolico della maternità come primato generativo e creativo del femminile, dall’altra l’incapacità di concepire l’idea che una donna possa, dopo nove mesi di gestazione, decidere di liberarsi del suo frutto. In entrambe le ipotesi si parla ancora in nome delle donne (come scrive Chiara Lalli su Internazionale del 4 dicembre 2015), coltivando quell’apologia vittimaria che, considerandoci incapaci di autodeterminazione, di fatto legittima interventi securitari sulla spinta etica del diritto penale massimo.