Ora hanno anche un leader, le “toghe rosse” di Magistratura democratica. Anzi, una leader. È Silvia Albano, la magistrata che ha disapplicato il decreto sui Paesi sicuri e che, in questo fine settimana di celebrazioni per i 60 anni di MD, ha rilanciato la sua “critica” alle scelte del governo.

Certo, lei ci tiene a precisare che no, non è mai stata sua intenzione muovere guerra a Meloni, Nordio e Salvini. Eppure… Eppure la due giorni di MD è stata un assedio continuo e mirato. Tutto legittimo, per carità, ma al contempo piuttosto singolare visto che non si trattava di un congresso di partito ma di una riunione celebrativa di una associazione di magistrati.

La verità è che MD è l’ultima “comunità politica” superstite della Prima Repubblica. Conserva quelle liturgie, quel linguaggio, perfino una profondità analitica che i partiti italiani hanno gettato alle ortiche trent’anni fa, quando un gruppo di magistrati milanesi - magistrati, certo, sempre loro - mise la parola fine a un’intera storia politica.

MD, infatti, è un fossile vivente che viviseziona la realtà con antiche categorie marxiane, senza aver paura di citare il concetto di giustizia sociale. Le toghe di MD parlano di povertà, disagio, giustizia sociale, e lo fanno con toni sofisticati, con analisi colte e in gran parte condivisibili. Il problema è che non sono né sociologi né politici. Sono magistrati, e in nessun altro Paese la magistratura si presenta come avanguardia sociale promotrice di cambiamento politico e morale.

Tutto ciò è la dimostrazione plastica di come il processo penale sia stato trasformato in un’arma di lotta politica. Come ha più volte spiegato il professor Giovanni Fiandaca, un pezzo di magistratura concepisce infatti il processo non come strumento di accertamento di singoli reati, ma come macchina da guerra contro interi fenomeni sociali. Le toghe combattono contro “la povertà, la corruzione e il degrado” riducendo il reato specifico in dettaglio, in pretesto. Con Mani Pulite, del resto, il modello era già stato messo in campo: colpire il fenomeno, scardinare il sistema, usare il diritto come un grimaldello. E così che l’intero concetto di giustizia fu piegato a un fine politico.

Insomma, ancora oggi continua a vivere l’antico sogno di una magistratura che punta a “incidere” - per così dire - nel sistema politico e sociale, che si considera investita di una missione morale e si pone in conflitto con il potere esecutivo. Siamo un caso unico in Occidente: nessun Paese tollera una tale pretesa di protagonismo da parte della magistratura, nessun’altra democrazia ha visto il giudice elevato a censore supremo, eroe solitario e custode dell’etica pubblica.

Il punto è che una parte di magistratura non si è mai arresa all’idea di rappresentare un contro-potere al governo, una funzione di “supplenza” di fronte a quello che vedono come il fallimento dei partiti. Così, i magistrati parlano di povertà e diritti sociali come se stessero leggendo il bollettino di un movimento di giustizia sociale. Ma quell’antico progetto ha dato vita a una forza isolata e autoreferenziale; una forza che non ha bisogno del consenso popolare e non risponde ad alcun controllo democratico. Se non al proprio.