Per Emmanuel Marcron le Olimpiadi parigine sono state un bagno rigenerante che per due settimane ha lavato via i veleni e le incrostazioni della più difficile stagione politica della sua vita. Il successo internazionale dei Jeux, il record storico di medaglie conquistate dalla Francia e di telespettatori nel pianeta, i dispositivi di sicurezza che, per una volta, hanno funzionato alla perfezione, le stesse polemiche sulla presunta “blasfemia” della cerimonia d’apertura sul sesso degli angeli e delle pugili, sull’ostentazione liberal-progressista della diversità e della cultura woke, hanno fatto di Parigi il centro del mondo con l’inquilino dell’Eliseo a giocare il ruolo di gran cerimoniere.

Nel 2017, poche settimane dopo la sua prima elezione, Macron disse che la Francia era in crisi, che aveva bisogno di raddrizzarsi e che per farlo occorreva un presidente “jupiteriano”, un’emanazione diretta di Giove, padre degli dei che governa i cieli e la terra, «un dio dal carattere imperioso e dominatore» secondo la definizione del celebre dizionario Laroussse. Associarsi al dio che troneggia dall’alto dell’Olimpo trova il suo compimento simbolico proprio nello spettacolo dei Giochi che nacquero proprio ai piedi del celebre monte greco.

«Sono fiero di noi francesi che quando ci uniamo siamo capaci di realizzare grandi cose, chi per sette anni ci ha detto che era una follia ospitare le Olimpiadi, che celebrarle Senna era un’incoscienza, che sarebbero state una catastrofe finanziaria hanno perso e con loro ha perso lo spirito della disfatta», tuona il presidente sulle colonne dell’Equipe. Una indiscussa vittoria, dunque, che Macron fa senz’altro bene a sottolineare e a salutare.

Le luci della ribalta sportiva e i benefici influssi della tregua olimpica però si disperdono in fretta ricordando a tutti che i Giochi sono una parentesi dorata, capace sì di mettere sullo sfondo i conflitti ma certamente non di cancellarli.

Finita la sbornia e appassiti gli allori, riemergono i problemi di sempre. E che problemi! Nessuno oltre le Alpi può ignorare che a oltre un mese dalle legislative la Francia non ha un governo e sembra lontanissima dall’averne uno. A Matignon per «sbrigare gli affari correnti» c’è ancora il fedelissimo Gabriel Attal e non un primo ministro espressione del voto popolare. Divisa in tre tronconi, l’Assemblea nazionale non è in grado di esprimere una maggioranza, anche risicata, anche variabile o “a progetto”.

La sinistra del Nouveau Front Populaire, primo gruppo in Parlamento, pretende l’incarico ma non ha i numeri, come non li hanno i centristi macroniani, e non li ha l’estrema destra di Le Pen e Bardella. Al momento non esiste alcuna ipotesi di coalizione perché nessuno vuole e a nessuno conviene allearsi con nessuno. Una situazione “belga”, impensabile per la granitica Quinta repubblica, forgiata dal generale De Gaulle proprio per garantirne la stabilità.

Al centro di questa possibile implosione delle istituzioni c’è Emmanuel Macron, elogiato all’estero ma debolissimo in patria, artefice, con la sua dissolution, dello stallo politico in cui è piombata la Francia. Debole e con pochissimo tempo a disposizione: se non troverà in fretta la chiave per uscire dall’impasse, il trionfo olimpico verrà ricordato come il suo canto del cigno