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Quale è stato il momento in cui la politica non è stata più comunità? E’ stato quello in cui il Parlamento è stato reso penetrabile all’incursione di un altro soggetto istituzionale come la magistratura. Parliamo dell’attentato cui, all’inizio degli anni novanta, deputati e senatori impauriti e sotto ricatto, sottoposero l’articolo 68 della Costituzione, quello sull’immunità parlamentare. Mai avrebbero consegnato le armi della cultura liberale i padri costituenti che nel 1948 misero mano alla massima legge dello Stato rivendicando con orgoglio il primato della politica. Un grande giurista come Giovanni Leone, mentre stilava il testo di quell’articolo, così ne aveva spiegato il senso profondo: “La norma mira a impedire che un atto dell’autorità giudiziaria o di polizia possa essere ispirato da una valutazione o da un orientamento politico e avere lo scopo di rendere impossibile a un deputato la libera esplicazione del suo mandato”.
Il principio non era legato, come molti credono, al timore del ritorno di un regime totalitario, ma al profondo convincimento della nobiltà della politica e della rappresentanza. E alla necessità che non venisse inquinata dalla politicizzazione di qualche magistrato. Rigore della sua autonomia, prima di tutto, nelle decisioni di governo, nella scelta dei propri rappresentanti, nell’elaborazione dei testi di legge.
“Non ci lasceremo processare nelle piazze”, il grido di Aldo Moro nel 1977 dopo l’affare Lockheed risuonò alto, e non fu il triste piagnucolio dei successori che si lasciarono anche insultare e arrestare e persino invadere nei loro luoghi decisionali, il Parlamento prima di tutto. Certo ci fu in seguito, negli anni novanta, anche Bettino Craxi con i suoi due famosi discorsi in un’aula però ormai arresa. Se qualcuno quel giorno, quando il leader dei socialisti rivendicava persino il diritto della politica, di tutta la politica, a finanziamenti “spuri”, si fosse alzato e avesse accettato di porre il problema come costo della politica e non come pura prassi criminale, oggi avremmo un Parlamento a testa alta.
E anche coloro che non condividono le scelte di Matteo Salvini sull’immigrazione non avrebbero bisogno di ricorrere a Montesquieu e alla divisione dei poteri. E neppure a Voltaire, per dichiararsi pronti a qualunque sacrificio purché lui potesse dichiarare le proprie idee e perché il governo di cui lui era ministro degli interni potesse nella massima autonomia operare le proprie scelte, per quanto sbagliatissime.
La politica si sarebbe fatta comunità. Non avrebbe consentito che una magistratura che nel godimento dei consensi da parte dei cittadini è al minimo storico, quasi come ai tempi di Enzo Tortora, catturasse uno dei leader più esposti, come già aveva fatto con Silvio Berlusconi, lo portasse alla sbarra con imputazioni senza senso come il sequestro di persona, e sotto sotto spingesse il mondo della politica a espellerlo, proprio come già fatto nei confronti del fondatore di Forza Italia.
Ma c’è un lavoro più sottile, che mina ogni giorno l’autonomia del Parlamento. Ha cominciato la Corte Costituzionale, a demolire la libertà di espressione dei parlamentari, aprendo la strada i processi per diffamazione e ai conflitti di attribuzione. E poi, all’indomani dei giorni gloriosi di Mani Pulite, proprio quando la politica era in ginocchio e la comunità si andava sgretolando, provvidero a sbriciolarla del tutto gli eredi di quel partito comunista che campava con l’oro di Mosca pur non disdegnando i finanziamenti “spuri” delle grandi imprese, pensando di agguantare le spoglie dei partiti caduti, il Psi prima di tutto. Non era più questione di maggioranze e opposizione, perché il Pci e il Psi governavano insieme in centinaia di amministrazioni locali.
Ma il moloch del partito dei pubblici ministeri, quello che il saggio Togliatti ministro guardasigilli avrebbe voluto dipendente dal dicastero della giustizia, aveva conquistato lo scettro dell’universalità delle decisioni. Non più divisione dei poteri, ma unico soggetto che contende alla politica la legittimità di nominare i propri esponenti o di lasciare all’oblio, tramite il potere di manette, quelli sgraditi, come Craxi, come Berlusconi, come Salvini. Domani, chissà, anche come Meloni.
Neppure quando dalle chat di Luca Palamara era emerso il vulnus politico che si stava scatenando contro Matteo Salvini, il quale “doveva” essere attaccato dalla magistratura, come infatti è poi accaduto, il mondo dei partiti ha saputo farsi comunità e rivendicare il proprio primato su decisioni di politica governativa. Qualche piccola vendetta di bottega del mondo cinquestellato ha consegnato l’ex ministro del governo Conte al boia. A mettere la sua testa sul ceppo hanno pensato i voti decisivi del gruppo di Matteo Renzi, che si è comportato proprio come aveva già fatto con l’espulsione dal Senato di Silvio Berlusconi. Se qualcuno avesse ascoltato le parole dei padri costituenti, Salvini non sarebbe processato e la politica sarebbe più forte. Tutta quanta, anche quella miope che pensa di lucrare sui processi. Quelli degli altri, ovviamente.