Cambiano i nomi, ma il bersaglio è sempre lo stesso. Il magistrato Marco Paternello, che considera la premier Giorgia Meloni «pericolosa», è in buona compagnia da almeno trent’anni. C’era una volta Craxi e con lui l’intero pentapartito, fatto saltare in aria dalle inchieste della magistratura. Poi arrivò la seconda Repubblica, e fu sufficiente, quando il ministro Biondi osò presentare una riforma della custodia cautelare, che quattro pm milanesi si presentassero in tv a dire che senza manette loro non potevano lavorare, per incrinare il primo governo Berlusconi fino alla successiva caduta. E provvide in seguito il procuratore Saverio Borrelli a confessare il malfatto: non valeva la pena di scardinare tutto, disse, se il risultato poi è stato questo qui.

Se oggi un magistrato osa dire che la situazione del rapporto tra la politica e la magistratura è più «pericolosa» di quella dei tempi di Berlusconi, c’è davvero da preoccuparsi. C’è da tremare, e farebbe bene la presidente del Consiglio a volgere un attimo lo sguardo indietro, visto che lei stessa da giovanissima è stata ministro con il Cav. E considerare bene se davvero non essere ricattabile sia sufficiente a far sì che le toghe militanti restino nei loro ranghi.

È stato molto esplicito il pg di Cassazione Paternello, esponente di Magistratura democratica non dei più estremisti, dicono, quando spiega che l’azione riformatrice di Meloni è più pericolosa di quella di Berlusconi, perché non essendo lei (per ora?) colpita da alcuna inchiesta giudiziaria, agisce non per difendersi ma per convincimento. E invita i suoi compagni magistrati a cercare di «porre rimedio». Come? Non con le manette, pensiamo. Ma non si sa mai. Quindi, dobbiamo dedurre che, mentre i pm del pool Mani Pulite degli anni Novanta si limitavano ad attaccare il governo sui singoli provvedimenti legislativi, esondando comunque dalla propria collocazione costituzionale, la versione anni Duemila della toga militante pare avere ambizioni più ampie. Colei che ha vinto le elezioni ed è stata chiamata dai cittadini a governare è in sé una persona «pericolosa».

Così viene alla mente subito la sentenza della giudice Silvia Albano che ha fatto tornare in Italia i 12 migranti che erano stati trasferiti in Albania. Se viene in mente quel provvedimento, non è per attribuire una esplicita volontà politica e antigovernativa alla magistrata, ma per ricordare che lei stessa ha più volte detto che ogni magistrato porta con sé nel proprio lavoro il proprio bagaglio culturale e i propri convincimenti. Così esplicitando: «Il giudice mette le sue convinzioni nell’interpretazione della legge». Più chiaro di così.

E se riflettiamo sul fatto che il tema di “paesi sicuri” in cui poter rimandare i migranti è regolato da norme ipocrite, imprecise, ambigue e scivolose, a partire da quelle europee, capiamo quanto importante sia l’interpretazione di ogni singolo giudice o tribunale. È sotto gli occhi di tutti che certi governi, certi presidenti e certi ministri non possono mettere mano neppure alla più piccola delle riforme senza che intervenga un pubblico ministero o un giudice a intralciarne la realizzazione. Eppure le toghe dovrebbero limitarsi ad applicare la legge. E non parliamo del fatto che il vicepremier Salvini sta affrontando un processo politico per la sua attività di ministro, conseguente a scelte politiche sull’immigrazione, in cui il pm ha chiesto la condanna a sei anni di carcere, trattandolo come un sequestratore.

Lo stesso accade con certi atti amministrativi, come ha dimostrato la recente vicenda giudiziaria in seguito alla quale tra pochi giorni in Liguria si terranno le elezioni regionali anticipate. A quale risultato hanno portato quattro anni di indagini, con intercettazioni e l’arresto del presidente Giovanni Toti, liberato solo dopo le dimissioni e poi invitato a un patteggiamento che vanificava il clamore e la gravità dei reati inizialmente contestati, se non le elezioni anticipate? È o no un risultato politico, quello dell’inchiesta giudiziaria dei magistrati liguri?

Non sappiamo che sorte avrà il nuovo provvedimento legislativo del Consiglio dei ministri sull’immigrazione. È in atto uno scontro culturale e politico tra chi ritiene di dover privilegiare, sempre e comunque, i diritti umani fino a dilatare oltre i limiti delle concrete possibilità di uno Stato e della sua popolazione l’accoglienza indiscriminata, e chi mostra più attenzione alla sicurezza e alla difesa dei propri confini e dei propri cittadini. Uno scontro di tipo culturale che dovrebbe essere limitato al recinto della politica. Purtroppo la magistratura italiana da tempo non riesce, o non vuole, tenersi al di fuori. Così, per restare in tema, se è pur vero che la sentenza del tribunale di Roma si è allineata ai criteri posti dal pronunciamento della Corte Eu del 4 ottobre, è altrettanto chiaro che ha riempito di contenuti quella sentenza, secondo i propri convincimenti. Ed è entrata in una tematica e in decisioni, come quella del governo di trasferire alcuni migranti nel centro di trattenimento albanese, strettamente politiche. E, se dovessimo usare parametri neppure troppo stretti nel valutare il tasso di democraticità e di sicurezza, dovremmo concludere che più della metà del mondo è fatto di Paesi non sicuri dal punto di vista della tutela dei diritti umani. E quindi che cosa facciamo? Ce lo facciamo spiegare da qualche sindacalista magistrato secondo le sue opinioni politiche? O dalle toghe militanti che hanno inseguito, con diversi strumenti da combattimento, prima Craxi, poi Berlusconi, poi Renzi, poi Salvini e oggi Meloni, considerandoli come nemici politici?