Era la caccia al Berlusconi “mafioso”, quella che partiva dalla Sicilia del 1992 per planare sulla Firenze del 1993 con passaggio improvviso alla procura di Reggio Calabria guidata da Federico Cafiero de Raho per assumere la veste della “ndrangheta stragista”, anno 1994.

Le bombe che dovevano arrivare fino alla vigilia della nascita di Forza Italia, il partito nato sulle stragi. Ipotesi politica sorta nelle aule di giustizia, ormai demolita colpo su colpo. Ed è proprio sulla terra calabra, dopo cinque fallimenti e altrettante archiviazioni siculo-toscane, che si è creato l’inciampo più rovinoso, per intervento della sesta sezione della cassazione, presieduta da Pierluigi Di Stefano.

È tutto da rifare, annullamento con rinvio, hanno stabilito i giudici dell’Alta Corte (Damiano Aliprandi lo ha raccontato sul Dubbio dello scorso 18 dicembre). Proprio come già accaduto nel processo gemello siciliano di cui quello calabrese è un clone, l’ipotesi della “trattativa Stato-mafia”, così come l’accordo tra i corleonesi e gli uomini di Piromalli, di usare le stragi come arma politica, non ha nessun fondamento, se non nella fantasia di ipotesi accusatorie che travalicano le aule di giustizia per ricostruire la storia del Paese.

La riscrittura della storia calabrese parte dagli omicidi di due carabinieri, delitto per cui erano stati già processati e condannati due malavitosi locali. Ma non pareva sufficiente, così arrivano a valanga i “pentiti”, da quelli più famosi come Gaspare Spatuzza, che recupera la memoria con dieci anni di ritardo, fino al più screditato Franco Pino e agli stessi due già condannati.

D’improvviso la Dda guidata da Cafiero de Raho pare sentire il bisogno di trovare i “mandanti” di quei delitti, che fino a quel punto erano stati catalogati come resa dei conti locale nei confronti dei carabinieri. Ma facendo attenzione alle date di quegli attentati, alcuni dei quali erano andati a vuoto, si nota che dal 1993, con le stragi di Firenze, Roma e Milano, per cui vengono pervicacemente indagati, prima da Palermo e poi da Firenze, Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi, si arriva con “ndrangheta stragista” al 1994, fino al 18 febbraio, cioè a un mese esatto dalle elezioni del 28 marzo e la vittoria di Silvio Berlusconi, la sconfitta della sinistra di Achille Occhetto e la fine della prima Repubblica.

Così, se si ripercorrono le tappe dell’inchiesta e delle sciagurate sentenze di primo e secondo grado di questo processo, viene da domandarsi in quale modo i giudici leggano le carte. Domandiamoci per quale motivo una resa dei conti locali diventa un progetto colossale di alleanza tra Cosa Nostra e la ‘ndrangheta, ipotesi già smentita in altri processi con sentenze definitive, con in primo piano il boss mafioso Giuseppe Graviano e l’uomo dei Piromalli, Rocco Santo Filippone di Gioia Tauro. In controluce si leggono altri nomi, quello di Berlusconi e quello di Dell’Utri.

Non era stato avaro di parole né di riferimenti politici nell’aula del processo d’appello, il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, auspicando che quella sentenza, che poi sarà di condanne all’ergastolo, sarebbe stata «soltanto un primo approdo». In attesa, aveva alluso, di poter individuare i «mandanti politici che attraverso la “strategia della tensione” volevano evitare l’avvento al potere delle sinistre».

Se ci spostiamo in su per l’Italia di qualche centinaio di chilometri, fino a Firenze, ritroviamo le stesse parole, gli stessi concetti dell’inchiesta sulle bombe del 1993 e sui “mandanti”. Altri magistrati e stessi concetti. Le bombe servivano a bloccare la sinistra. Si era speso in modo chiaro quel giorno, era il 25 marzo 2023, nell’aula della corte d’Assise d’appello di Reggio Calabria, il procuratore Lombardo. Aveva ripercorso la storia d’Italia del 1993, le elezioni amministrative d’autunno e la vittoria, in gran parte, dei candidati della sinistra. È quello l’anno, dice «in cui in Italia dopo moltissimo tempo si corre il rischio di un governo a guida comunista. Perché nell’autunno del 1993 Achille Occhetto vince le elezioni amministrative e inizia a parlare da presidente del consiglio».

«Quello - prosegue la sua requisitoria storico- politica il procuratore - è un momento storico anche per effetto della forza distruttiva generata dalla vicenda Mani Pulite, gestita dalla procura di Milano, che deflagra su quello che rimane della Democrazia Cristiana e del Partito Socialista. L’unico interlocutore di sinistra che ha una capacità aggregante è il Pds di Achille Occhetto, che in quel momento ovviamente parla come se non avesse avversari. E non ha avversari in realtà. L’avversario verrà formalizzato dopo qualche mese. L’avversario diventerà Forza Italia».

Anche il nome di Silvio Berlusconi e del suo primo governo sarà citato in quell’aula. In un processo, va ricordato, in cui l’imputato non era il leader di Forza Italia e Achille Occhetto non era la parte civile. Lì si doveva stabilire se i due malavitosi che avevano assassinato nel lontano 18 febbraio 1994, cioè trent’anni prima, i carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, e che erano stati già condannati, avessero avuto dei mandanti. Cioè un capo mafia come Giuseppe Graviano, già condannato a sei ergastoli per altri delitti, e Rocco Santo Filippone.

Il tutto inserito, secondo la visione della Dda di Reggio Calabria, in una “strategia della tensione” stragista, quella di Cosa Nostra e della Trattativa- uno, che passa dal 1992 fino alle bombe del 1993 e che arriva, deve arrivare per poter quadrare il cerchio, fino ai primi mesi del 1994, fino al 28 marzo della vittoria di Berlusconi.

Ecco perché la morte di quei due poveri carabinieri improvvisamente diventa importante. Per la data dell’attentato. E non importa se uno dei due responsabili del doppio omicidio poi si pente di essersi pentito e parla delle pressioni ricevute. Il processo è andato liscio come l’olio fino alla cassazione. Ma capita di inciampare, come è successo nel processo Trattativa- uno e ora nel Trattativa- due. E l’appuntamento è al nuovo dibattimento. Ci saranno dei giudici che leggano le carte? Nell’attesa della sesta archiviazione di Firenze, ormai nei confronti del solo Dell’Utri, ma sotto sotto sempre anche di Berlusconi, nella procura dove non ci saranno più i due Luca, Tescaroli ormai procuratore a Prato e Turco, ormai in pensione.