I parenti dei sette poveri ragazzi morti sotto il crollo della casa dello studente dell’Aquila la notte del 6 aprile 2009 hanno accolto la sentenza in sede civile della locale Corte d’Appello, con la quale si nega loro ogni risarcimento, in maniera molto composta. Anzi, forse, rassegnata.

La sentenza di secondo grado si pensa che ricalcherà i motivi di quella di primo e, dinanzi a una doppia conforme, ben difficilmente la Cassazione sovvertirà tale verdetto. I parenti delle vittime ne sono coscienti e magari ci sarà qualcuno che, stremato, dopo più di 15 anni, rinuncerà al ricorso di legittimità. Ma si può o non si può sostenere che i giudici hanno sbagliato? Nel caso specifico non si può analizzare solo il comportamento della Commissione Grandi Rischi: fu giusta la sentenza che li mandò assolti perché essere geologi non significa avere la sfera di cristallo e alcuni fatti e nessi scientifici ci restano ancora ignoti.

Ma il comportamento successivo alla riunione della Commissione, imputabile non solo ad essa, ma a una costellazione di soggetti pubblici che nulla fecero per prevenire la strage interna al disastro, è comportamento adeguato? Il principio di precauzione che deve informare di se’ ogni momento critico, dove lo mettiamo? Eppure è principio basilare. Di tutto ciò parlavano gli appellanti nei loro atti, ma si è preferito limitarsi a ripetere che i geologi non possono “predire” lo scatenarsi di una scossa maggiore e dunque, sembra si sostenga, se nulla potevano dire i geologi nulla poteva fare chi a loro dava ascolto. Ma far lasciare obbligatoriamente le case perché vi è un rischio sostenuto, è richiedibile o no? Anche a tacere delle modalità di costruzione di un’abitazione, facilmente verificabili. Insomma, a l’Aquila le responsabilità furono molteplici e non era peregrino aspettarsi che la Corte, nel rivedere la decisione di primo grado, se ne rendesse conto.

I più anziani fra i nostri lettori si ricordano bene di un’epoca (fino ai primi anni ’60) in cui criticare le sentenze era considerato un oltraggio, una cosa inconcepibile. Poi mutò il sentire, sia sociale che giuridico, e si inizio a dire che anche le sentenze (e gli altri provvedimenti giudiziari) sono criticabili, sia dai giuristi che dai cittadini comuni: era una questione di democrazia. Sostenne con forza questa tesi uno sparuto drappello di Magistratura Democratica appena nata: onore al merito. Da allora è diventato accettabile che le sentenze, al pari di ogni altro atto amministrativo (poiché in fondo di questo si tratta), possano essere criticate sia sul Foro Italiano, sia nei convegni, sia in TV, sia dal pubblico in generale.

Certo, una cosa è criticare una sentenza e altro è scagliarsi contro i magistrati che la hanno emessa. Ma ve le ricordate le prime sentenze sul Vajont? Possiamo onestamente sostenere che furono emesse in buona fede e dopo un attento studio? Per non dire di tante sentenze su casi politicamente connotati. Giusto dunque solidarizzare coi magistrati (e per le Camere Penali, per esempio, questo è un vero e proprio costume consolidato) attaccati sol perché avrebbero “assolto a prescindere” (così si urla in tanti casi) o utilizzato forme alternative alla detenzione laddove era possibile. Ma nei confronti di chi continua, a più di trent’anni di distanza, a puntare sul “tintinnar di manette”? Nemmeno questi possono essere toccati?

C’è modo e modo di “toccare” e certi berci in udienza non ci piacciono, ma non ha senso, io credo, mettere insieme Hijort e Cerciello Rega, Viareggio e Pifferi, L’Aquila e tante altre cose: ci sono vittime che, nella tragedia più grande, hanno saputo mantenere quella che potremmo definire una “compostezza ostinata” ed è giusto stare a loro fianco e a fianco alla loro legittima critica.