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Paolo Ferrua
La magistratura si è sempre mostrata contraria alla separazione delle carriere. Scelta pienamente legittima, sia perché i magistrati hanno diritto, come tutti i cittadini, alla libera manifestazione del loro pensiero, sia perché si tratta di una riforma che coinvolge direttamente l’esercizio delle loro funzioni.
Nel rifiuto di questa riforma vanno, tuttavia, distinte due componenti. La prima sta nel timore di una perdita di indipendenza del pubblico ministero che, in regime di separazione delle carriere, potrebbe trovarsi assoggettato a vincoli più o meno intensi con il potere esecutivo. Timore più che comprensibile per diverse ragioni. Anzitutto perché in molti paesi dove le carriere sono separate l’accusatore è elettivo o soggiace in varie forme a collegamenti con il potere politico. In secondo luogo, perché la semplice separazione delle carriere, se non accompagnata da meccanismi di responsabilizzazione e controlli del pubblico ministero, lungi dal modificare gli attuali equilibri tra giudice e parti, paradossalmente porterebbe ad accentuare i poteri dell’accusa.
All’interno di un corpo numericamente ridotto e gerarchicamente strutturato di pubblici ministeri, reclutati per concorso e dotati della massima indipendenza, si concentrerebbero temibili poteri nelle mani dei vertici, di fatto autorizzati a gestire le scelte più delicate nell’esercizio dell’azione penale, senza alcuna responsabilità politica. A quella che è polemicamente chiamata la ‘ casta’ dei magistrati subentrerebbe la ‘ casta’ dei pubblici ministeri, più autoreferenziali che mai, proprio in quanto corpo isolato ed autonomo da ogni altro potere; e la stessa discrezionalità che oggi si lamenta nell’esercizio dell’azione penale, lungi dal ridursi, sarebbe ancora più incontrollata.
L’attuale Ministro assicura di essere un fermo sostenitore dell’indipendenza del pubblico ministero. Non mettiamo in dubbio la sua buona fede, ma non può certo ipotecare l’avvenire, che resta rimesso alle scelte delle future maggioranze: anche perché il collegamento del pubblico ministero con il potere politico, se realizzato con legge costituzionale, non sarebbe un golpe né una rottura dell’ordine democratico. In sintesi, non si può escludere che la separazione delle carriere sia solo il primo passo di una più ampia riforma destinata a concludersi con l’assoggettamento del pubblico ministero a controlli del potere politico o a un diverso sistema di reclutamento.
A questo punto non intendo sottrarmi alla responsabilità di esprimere un’opinione in ordine alla separazione delle carriere all’interno del nostro ordinamento. La riassumo in tre concetti che complessivamente mi vedono piuttosto isolato rispetto alle posizioni oggi dominanti.
Primo. Il modello accusatorio favorisce la separazione delle carriere come favorisce la giuria e con essa il verdetto immotivato, ma non vi è un rapporto di implicazione necessaria tra queste opzioni, perché il processo accusatorio può benissimo convivere con una magistratura reclutata per concorso, dove pubblici ministeri e giudici si distinguono solo per le funzioni esercitate, restando uniti nel medesimo corpo giudiziario: naturalmente, a condizione che le funzioni restino nettamente separate senza ibridismi come l’assurda figura della ‘ parte- imparziale’ e del ‘ cultore della giurisdizione’. In breve, mentre la separazione delle carriere non avrebbe alcun senso mancando il processo accusatorio, quest’ultimo può rappresentare una commendevole scelta di civiltà anche senza la separazione delle carriere.
Secondo. Se si opta per la separazione delle carriere, il pubblico ministero, come rappresentante della società offesa dal reato, non può restare un corpo isolato e autonomo, ma va sottoposto al controllo del potere politico, sia esso ministeriale o parlamentare: lo suggerisce l’esigenza, appena indicata, di evitare la concentrazione di formidabili poteri in capo ai suoi vertici (procuratori della Repubblica e procuratori generali), che si troverebbero investiti di un demiurgico dominio sull’azione penale.
Terzo. Inutile nascondersi che la prevedibile perdita di indipendenza del pubblico ministero ha la sua contropartita: il potere politico è inevitabilmente controinteressato all’accertamento di ogni fatto che coinvolga la legalità del suo operato o possa ostacolare la sua azione e i suoi programmi. (...) Pertanto, ad evitare il rischio di arbitrarie interferenze del potere politico, l’esercizio dell’azione penale deve restare obbligatorio. L’eventuale divieto di agire impartito dai vertici ministeriali è illegittimo e non esonera da responsabilità il pubblico ministero che obbedisca senza eccepire l’abuso. Contrariamente a quanto riteneva Calamandrei, la sottoposizione al potere politico non è incompatibile con l’obbligatorietà dell’azione penale, anzi la rende necessaria.
La mitologica figura del pubblico ministero parte- imparziale. L’attacco al processo accusatorio si svolge a tre livelli: a) ideologico; b) giurisprudenziale; c) legislativo.
Il primo livello si manifesta con il recupero di vecchie formule, alquanto arrugginite, che esaltano la figura del pubblico ministero come organo ‘ imparziale’, volto ad indagare a carico come a favore, vigile sentinella a tutela della giustizia. Tale, ad esempio, lo stereotipo del pubblico ministero come parte- imparziale o come ‘cultore della giurisdizione’, dimenticando che quest’ultima o si ritiene limitata al giudice o, se include il pubblico ministero, deve necessariamente comprendere anche il difensore. Il tutto accompagnato da catastrofiche previsioni sulla natura di despotico e implacabile accusatore che assumerebbe il pubblico ministero in un regime di separazione delle carriere.
Chi non è giudice nel processo è per logica esclusione ‘ parte’, e tale dev’essere il pubblico ministero. Di ‘imparzialità’ si può (impropriamente) parlare per il pubblico ministero solo nel senso in cui l’art. 97 Cost. ne parla in rapporto alla pubblica amministrazione, ossia come rispetto della legge e del principio di uguaglianza tra le persone nei cui riguardi si esercita l’attività pubblica.
Non vi è alcuna necessità di ricorrere alla mitologica figura della parte- imparziale o ad altri slogan per concludere che il pubblico ministero, come rappresentante della società offesa dal reato e come organo rigorosamente soggetto alla legge, è tenuto a chiedere l’archiviazione ogniqualvolta gli elementi
a sua disposizione non consentano di formulare una ragionevole previsione di condanna ( art. 408 c. p. p.); allo stesso modo in cui nel dibattimento può chiedere la condanna solo quando vi sia la prova oltre ogni ragionevole dubbio della colpevolezza ( art. 533 c. p. p.). D’altronde, per la stessa polizia giudiziaria non occorre affatto postulare una sua imparzialità per concludere che ogni misura e iniziativa da essa intrapresa resta rigorosamente soggetta ai presupposti fissati dalla legge.
L’idea che un pubblico ministero, a cui si attribuisca la qualità di ‘ parte’ in senso proprio e senza l’ossimoro della ‘ imparzialità’, sia sistematicamente indotto ad agire contro l’accusato nasce da una terribile confusione tra funzioni e azioni nel processo. La circostanza che il pubblico ministero sia un tipico organo di accusa è del tutto compatibile con l’obbligo di chiedere, in assenza di elementi idonei alla condanna, l’archiviazione o il proscioglimento, a seconda della fase processuale. In altri termini, il livello funzionale ( parte o giudice, accusa o difesa) va tenuto ben distinto da quello attanziale, ossia dalla condotta che devono tenere i protagonisti, gli attanti del processo. L’obbligo del pubblico ministero di svolgere accertamenti anche a favore dell’imputato ( art. 358 c. p. p.), lungi dall’implicare la sua ‘ imparzialità’, è una semplice proiezione dell’esigenza di attribuire un solido fondamento all’azione penale, in assenza del quale s’impone come doverosa la richiesta di archiviazione.
Il processo penale è un campo di forze in delicato equilibrio tra loro, dove ogni alterazione nel ruolo di un soggetto si ripercuote inesorabilmente sugli altri, che si appropriano dello spazio rimasto vacante. In particolare, l’esperienza documenta che, quando il pubblico ministero latita o esita nella sua tipica funzione di parte, il processo inquisitorio è alle porte: a compensare la carenza, interviene il giudice, convertendosi in accusatore. Dunque, è bene che, ai fini di una corretta ripartizione dei compiti, il pubblico ministero mantenga nel processo la sua veste di organo focalizzato sull’accusa. (...)
Le ‘finestre giurisdizionali’ della riforma ‘ Cartabia’: l’alternativa alla separazione delle carriere e l’affossamento del modello accusatorio. La terza forma di ostilità al modello accusatorio si è manifestata con la riforma ‘ Cartabia’. È un attacco, all’apparenza, meno aggressivo rispetto alla svolta inquisitoria del ’ 92, più artificioso, più prudente e calcolato, nel quale la violenza arretra e si modera, ma soltanto al fine di colpire più in profondità. Nella logica del modello accusatorio, l’indagine preliminare dovrebbe essere fluida e poco formalizzata, dato che la vera garanzia sta nella irrilevanza probatoria delle dichiarazioni raccolte e degli accertamenti svolti in quella fase: il rapido passaggio al dibattimento è il necessario presupposto sia per un uso ristretto delle misure cautelari sia per conservare la memoria dei testimoni.
La riforma ‘ Cartabia’ prende la strada opposta e percorre le vie retrograde del ‘ garantismo inquisitorio’; moltiplica, nella fase delle indagini preliminari, gli adempimenti, i termini, le formalità e le c. d. finestre giurisdizionali, destinate agli interventi e ai controlli del giudice. L’indagine si frammenta in una sequenza di micro- procedure, accompagnate da distinzioni spesso oziose o inafferrabili. L’asse del processo si sposta verso l’indagine preliminare, appesantendola e trasformandola in un labirinto: la prospettiva del dibattimento si allontana, cresce il rischio di irripetibilità delle dichiarazioni già raccolte e la memoria dei testimoni si affievolisce: i “non ricordo ma, se l’ho detto, è vero” si moltiplicano, come accade nel processo misto. C’è una legge inesorabile, troppo spesso dimenticata, su cui Franco Cordero ha scritto splendide pagine: quanto più si sovraccarica di pseudo- garanzie l’indagine preliminare, tanto più si svilisce e perde autonomia il dibattimento, mentre si incrementa il ricorso alle misure cautelari Lungi dal depenalizzare, la riforma ‘Cartabia’ de- processualizza, favorisce con ogni mezzo la fuga dal dibattimento, a tutto vantaggio del rito abbreviato e degli altri meccanismi di definizione anticipata. Vi è stato un tempo in cui si discuteva se difendersi solo nel processo o anche dal processo. Con la riforma Cartabia si inaugura una nuova esperienza nella quale si auspica che la difesa si svolga prima e fuori del dibattimento, al fine di contenerlo nei più ristretti limiti: siamo all’inno funebre del modello accusatorio.
Il valore dei nuovi formalismi in termini garantisti è decisamente esiguo: i termini per le determinazioni del pubblico ministero e per le decisioni del giudice sono quasi sempre meramente ordinatori; quanto al controllo sulla tempestiva iscrizione della notizia di reato, la retrodatazione disposta dal giudice è subordinata alla pressoché diabolica prova che il ritardo sia «inequivocabile» e «non giustificato».
La ragione di questa ipertrofia delle indagini preliminari è abbastanza trasparente. Si ottiene il duplice risultato di affossare definitivamente il processo accusatorio e, insieme ad esso, ogni prospettiva di revisione dell’ordinamento giudiziario. L’idea è di indurre a credere che i controlli del giudice e le finestre giurisdizionali possano propiziare un pubblico ministero modellato più come organo di giustizia che di accusa e costituire così una valida alternativa alla separazione delle carriere. Il ‘ messaggio’ veicolato dalla riforma è, all’incirca, il seguente: se il giudice vigila sul pubblico ministero sin dall’indagine preliminare e la difesa in caso di abusi ne può sempre invocare l’intervento, è inutile, anzi dannoso, separare le carriere; non si otterrebbe altro risultato che accentuare al massimo grado la parzialità dell’accusa.
È una scelta decisamente infelice: separate o no che siano le carriere, nella fase delle indagini preliminari si registrerà sempre, sia per la vicinanza al fatto di reato sia per la pressione dell’opinione pubblica, una maggiore sensibilità alle ragioni dell’accusa. La vera garanzia, come insegna Franco Cordero, sta nel celere passaggio alla fase del dibattimento e nella barriera che deve garantirne la sua autonomia rispetto agli esiti delle indagini preliminari. È solo nell’oralità e nel contraddittorio che si può realizzare la piena parità tra le parti.