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LICIO GELLI
All’appello mancava solo Licio Gelli. Come mandante non solo dei fatti più tragici della repubblica, ma anche della riforma sulla separazione delle carriere. Per l’occasione il nome dell’ex procuratore Giancarlo Caselli, già prestigioso di suo, è affiancato, in un articolo sulla Stampa, da quello di un famoso avvocato torinese, già docente universitario e che ha al suo attivo sessant’anni di stimata professione nel capoluogo piemontese, Vittorio Barosio.
Uno spreco per tutti e due, vien da dire, questo riferimento a Licio Gelli. Perché con gli argomenti contro la riforma che porta già il nome del ministro Carlo Nordio, dopo quella sulla separazione delle funzioni attribuita all’ex guardasigilli Marta Cartabia, siamo ormai arrivati veramente al fondo del barile. Siamo quasi al “cicca cicca” dei litigi infantili di un tempo o allo “zitto tu che hai un foruncolo sul naso” di chi non ha più frecce al proprio arco.
È sorprendente il fatto che illustri giuristi e anche magistrati famosi come Nino Di Matteo, che già un anno fa accusava il governo di aver “gettato la maschera” per una presunta continuità, oltre che con la P2, con Berlusconi e Cartabia, non riescano a fare lo sforzo di andare a pescare nella propria cultura giuridica qualche argomento che entri nel merito della riforma.
Eppure non è così complicato, sarebbe sufficiente, sul piano della nostra Costituzione, riferirsi alla riforma Vassalli del 1989 che ha introdotto il sistema accusatorio nel processo penale, e all’articolo 111 sul giusto processo, come formulato nel 1999. È vero che, con la formazione della prova nel dibattimento, il confronto tra accusa e difesa diventa spesso scontro e il risultato finale viene equiparato alla vittoria o la sconfitta di una parte quasi si fosse su un campo di calcio.
Ma è altrettanto vero che nel nostro ordinamento la figura del pubblico ministero ha un potere spropositato, soprattutto nella fase delle indagini preliminari, nella quale il giudice finisce troppo spesso per assumere un ruolo puramente notarile, soprattutto per le migliaia di intercettazioni su cui si trova a dover mettere le mani. E ancora, che cosa vogliamo dire dell’ipocrisia costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale?
In questo quadro il pm non solo è il dominus del processo, ma è anche totalmente “irresponsabile”. Quando decide quali fascicoli sono prioritari rispetto ad altri, sta esercitando arbitrarietà o arbitrio? Il che determina un forte squilibrio non solo tra le parti, ma anche tra i due “colleghi”, il rappresentante dell’accusa e il giudice. Che dovrebbe essere non solo terzo e neutro, ma anche e soprattutto forte, potente. L’unico a dover e poter esercitare il proprio potere, quello di dare il giudizio.
Denunciare il fatto che ci troviamo davanti a un pm “irresponsabile” significa che vogliamo porre la sua libertà sotto il giogo per esempio del potere politico? Non necessariamente. È vero che in molti ordinamenti del mondo occidentale, liberale e democratico (non stiamo parlando di sistemi totalitari) è così. Il che non impedisce, come accade in modo vistoso negli Usa con inchieste nei confronti del presidente Donald Trump.
Ed è così per esempio anche in Francia, dove la carriera dei magistrati è unica ma il rappresentante dell’accusa risponde al guardasigilli. Il che ha consentito proprio di recente alla magistratura di processare il ministro della giustizia Eric Dupond-Moretti. Il quale è stato alla fine assolto, ma dopo tre anni di indagini e non secondari problemi personali e politici.
Ma la riforma Nordio non ricalca né i sistemi del common law né quello francese. Si avvicina piuttosto a quello portoghese, in cui c’è la separazione delle carriere, ma sia pm che giudici sono magistrati autonomi e indipendenti. Perché dunque l’obiezione principale nei confronti della riforma, cui lo scritto di Caselli e Barosio non si sottrae, continua a essere un processo a intenzioni nascoste? Perché anche persone abitualmente sensate devono continuare a sostenere che non solo il governo ma anche il Parlamento, dicono e scrivono e votano una cosa ma in realtà intendono farne (in futuro) un’altra?
Credetemi, lo diciamo ai nostri due interlocutori di oggi, ma anche al sindacato delle toghe con annessi partiti di minoranza, questo argomento è poco dignitoso prima di tutto per chi lo pronuncia. Perché in un regime democratico e liberale, come noi riteniamo sia l’Italia, da chiunque governata nelle diverse fasi storiche, è essenziale che ogni parte porti rispetto nei confronti di chi la pensa diversamente, senza bisogno di insultare.
Abbiamo già polemizzato con il dottor Caselli per le inequivocabili parole di Giovanni Falcone in favore della separazione delle carriere. Aggiungiamo che non sarebbe neanche così importante doverlo rivendicare quasi fosse una medaglia, se la realtà dei fatti non fosse continuamente messa in discussione da tanta parte del mondo delle toghe. Quasi, loro si, avessero bisogno di coprirsi le spalle con i propri santini e santuari.
Anche per questo troviamo inutile venga ricordato il fatto che nel 1982, come a dire pochi giorni fa, nel “Piano di rinascita democratica P2” di Licio Gelli, tra le tante cose, era prevista anche la divisione processuale tra chi è chiamato a giudicare e il rappresentante dell’accusa. E allora? Vuol dire che Gelli la pensava per esempio, su questo punto, proprio come Falcone.
Scandalizzati? Ecco il rischio di usare argomenti inappropriati. E lasciamo perdere Silvio Berlusconi, che aveva provato da presidente del consiglio con il ministro Roberto Castelli a proporre almeno la separazione delle funzioni, e contro cui la Anm proclamò ben due scioperi. Di lui i nostri due interlocutori citano solo i suoi processi, e li ringraziamo perché non ricordavamo fossero stati 36.
Il dottor Caselli e il professor Barosio però non sono forti sulle tabelline della matematica oppure hanno una leggera amnesia. Infatti nel ricordarci l’unica condanna, le due amnistie e le otto prescrizioni (di cui non è responsabile l’indagato ma l’incapacità delle magistratura) hanno dimenticato di citare le 25 assoluzioni. E si, perché 36 meno 11 fa proprio 25. Se aggiungiamo le prescrizioni di cui è stato vittima, fa 33.